Dio ci salvi dai fact-checker

Dicono di accertare il vero dal falso ma spesso esprimono opinioni tendenziose e di parte. Abbiamo davvero bisogno dei cosiddetti fact-checker?

Dio ci salvi dai fact-checker

Nell'era postmoderna dei social e della post-verità, nonché della crisi dell'informazione tradizionale, è emersa una nuova figura prima sconosciuta, quella del cosiddetto "fact-checker": trattasi di esperti di informazione e giornalisti che si occupano fare debunking, cioè di verificare le notizie inerenti fatti di politica, scienza e attualità e di smentire le notizie false che circolano in rete e soprattutto sui social network. Manco a dirlo, il fact-checking è diventato estremamente popolare in occidente con l'ascesa di Donald Trump, considerato dalla stragrande maggioranza dei media come un bugiardo seriale: secondo i dati del Duke Reporter's Lab, da quando il presidente Trump è stato eletto nel 2016, c'è stato un aumento del 200% nel numero di organizzazioni di fact-checking lanciate in tutto il mondo. Quasi il 20% di queste organizzazioni si trova negli Stati Uniti.

Il fact-checking in Italia

Oltre a Pagella Politica e Valigia Blu, in Italia fra i fact-checker più noti e apprezzati c'è David Puente, responsabile della sezione di fact-checking di Open. Puntiglioso e sempre molto documentato, Puente è diventato - meritatamente - celebre negli ultimi anni per aver smascherato una grande quantità di fake news che circolano sul web. Tuttavia, una certa boria di chi crede di essere il solo deputato a stabilire ciò che è vero o falso lo ha portato di tanto in tanto a compiere qualche "scivolone" o, semplicemente, a rimarcare il fatto che ogni tanto è preferire porre dei dubbi piuttosto che sciorinare delle certezze quasi fossero il vangelo. Come tutti, del resto, anche i fact-checker hanno le loro opinioni e convinzioni ideologiche.

Nei giorni scorsi, dinanzi alle preoccupazioni e criticità di chi evidenziava le problematiche legate alla privacy rispetto al controllo del Green pass nei locali, Puente ha scritto un tweet al veleno: "Un commerciante non può chiedere il documento d'identità perché non è un pubblico ufficiale? Se lo avete scritto sui social, usando la rete mobile del vostro smartphone, dovreste aver capito la "cagata pazzesca" che avete diffuso". Purtroppo, in questo caso, la "boiata pazzesca", come direbbe Fantozzi, l'ha detta proprio Puente, smentito nientemeno che dal ministro Luciana Lamorgese la quale ha chiarito, dopo giorni di confusione, che i "titolari dei locali non possono chiedere la carta d'identità ai clienti, ma il controllo spetta a loro". Non contento, dal canto suo Puente ha sottolineato in un articolo che le modalità di verifica del Green pass e la possibilità di richiedere un documento d’identità erano specificate nel Dpcm del 17 giugno, ma l’esecutivo ha cambiato le carte in tavola all'ultimo. Effettivamente, sembra che sia andata come ha sottolineato il fact-checker ma c'è un motivo ben preciso: il governo ha dovuto modificare quel passaggio perché - evidentemente - era di dubbia legittimità. Come evidenziato nei giorni scorsi perfino da Magistratura democratica, "appare di debole sostenibilità giuridica l’art. 3 comma 3 del decreto legge de quo che attribuisce ai titolari o gestori di servizi il potere di verificare l’accesso ai predetti servizi e attività e che ciò avvenga nel rispetto delle prescrizioni adottate". Ammettere l'errore o quantomeno di aver scritto un tweet semplicemente inopportuno? Certo che no. Impensabile per chi ha la verità nel proprio taschino.

Perché il fact-checking non è (sempre) ciò che sembra

Per molti mesi, la circolazione delle cosidette fake news ha preoccupato le classi dirigenti occidentali tanto da indurre anche i social media a introdurre delle strumenti di fact-checking che, tuttavia, come ha dimostrato il giornalista e Premio Pulitzer Glenn Greenwald si sono dimostrati tutt'altro che "imparziali" e super partes. "Ciò che viene così spesso spacciato come un controllo dei fatti quasi scientifico sono invece opinioni estremamente tendenziose, soggettive e altamente discutibili" spiega Greenwald, prendendo come esempio il dibattito sulla legge sulle incarcerazioni di massa del 1994 votata anche da Joe Biden. Qual è il limite fra accertare i fatti e processare le opinioni?

In un ampio dossier redatto da Daniele Scalea per il Centro Machiavelli si sottolinea come "lungi dal limitarsi ad accertare fatti conclamati e indisputabili, i medesimi metodi sono applicati per vagliare le opinioni e giudicare se esse siano vere” o false". Il fact-checking, infatti, "si rivela carente dal punto di vista epistemologico e metodologico, rifiutando di dotarsi di criteri scientifici per la selezione dei casi da esaminare e per l’esame stesso.

Dietro al presunto accertamento oggettivo dei fatti si nasconde spesso un tentativo di delimitare le opinioni che è legittimo esprimere, delegittimando le altre come false". Secondo Greg Marx, nella pratica il fact-checking è parte d’uno sforzo per plasmare il discorso pubblico: non decide solo quali affermazioni siano vere, ma soprattutto quali siano legittime.

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