Il calcio non è (solo) una questione di business. Almeno in Giappone è ancora così e ci si può emozionare per Totò Schillaci il missionario, per Zico il profeta e, soprattutto, per quella audace promessa: entro il 2050 ce la faremo ad alzarla al cielo, la Coppa del Mondo.
Il Giappone ama il calcio e nella passione per il futbol esprime l’amore che il Sol Levante nutre nei confronti dell’Italia. A Tokyo, nella sede della Federcalcio locale, c’è il museo della pedata orientale. Che è molto più interessante di quel che potrebbe sembrare.
Alla fermata Ochanomizu, solitamente, il turista non scende. E chi lo fa, vira subito oltre il ponte sul fiume Kanda e si lancia in una lunga camminata verso Akhihabara, il suk ultramoderno della tecnologia e dei manga. A Ochanomizu ci si ritrova in un quartiere denso di cliniche e ospedali, università mediche e studi dentistici in franchising. C’è lì vicino una smoking area dove i fumatori si attardano a guardare i treni che vanno e vengono dalla stazione.
Eppure a cercar bene qualcosa c’è. Ci sono degli stendardi urbani che, approfittando del fatto che non tutte le strade giapponesi hanno un nome, indicano l’inizio di quella che chiamano lì “Football Avenue”. Il culto per la nazionale locale, i Samurai Blue, è palpabile. Ci sono bandiere azzurre ovunque. E tutte conducono al palazzo della Federazione.
C’è una data che è scritta ovunque nei murales che costeggiano la sede dell’organo più importante del calcio nipponico. È quella del 2050. Ci credono davvero che, tra quarantatré anni, il Giappone potrà finalmente alzare al Cielo l’unico trofeo internazionale che manca alle sue bacheche: la Coppa del Mondo.
Il museo è in un ampio spazio seminterrato, cui si accede scendendo una scala che taglia una vera e propria parade di immagini di eroi del pallone giapponese. Tra di loro c’è pure lo sguardo eternamente affamato del paisà Totò Schillaci che, dopo le notti magiche di Italia '90, dopo la militanza tra Juve e Inter, se ne andò (nel 1994) a predicar calcio in quelle terre lontane, indossando la maglia azzurra del Jubilo Iwata.
La sala più importante è dedicata al mondiale che gli italiani ricordano con meno piacere. Quello di “casa”, organizzato in coabitazione con la Corea del Sud nel 2002. Furono i mondiali dell’assurdo Byron Moreno che riuscì a triturare le speranze (fondate) degli azzurri del Trap. Al centro della sala ci sono i manichini vestiti con le maglie originali del Giappone ’02. Poco distante, c’è la riproduzione (in plastica) del gigantesco Ollie Kahn, eroico portiere della Germania di Ballack (eletto miglior calciatore di quella Coppa del Mondo) che affondò, in finale, solo al cospetto del Brasile di Ronaldo che allora divenne pentacampeon.
Nel museo convivono antichi cimeli e ultratecnologia. Ci sono schermi che proiettano filmati in 3d (da guardare con gli occhiali) e le divise storiche della nazionale giapponese. Dalle ultime e nuovissime divise (tra cui quella dell’ex milanista Keisuke Honda che qui è un un vero e proprio idolo) fino alle sobrie e antiche magliette degli anni ’10 del secolo scorso. Tra i cimeli anche un dono autografato da Pelé ai capi federali del Giappone, tutto l’incartamento preparatorio all’organizzazione dei mondiali ’02, e un’intera ala dedicata alla storia della Coppa Intercontinentale dove (ri)vedere il fascino del calcio da Platini e Van Basten fino a Del Piero e Kakà.
Tante testimonianze di amicizia al pallone nipponico si leggono sul muro in cui c’è la riproduzione della Coppa del Mondo. Da George Weah fino all’ex cittì giramondo Philippe Troussier, tutti sotto la firma della principessa Hisako Takamado, nipote dell’Imperatore e madrina del calcio giapponese.
Non manca nemmeno la firma di un uomo che, forse più di tutti, ha consentito al futbol di diventare una vera e propria mania nazionale. La firma del mangaka Yoichi Takahashi è accanto all’immagine dell'under 23 più vincente della storia giapponese (e mondiale), quella di Holly, Benji, Mark Lenders e gli altri eroi che hanno ispirato intere generazioni (non solo nel Sol Levante) a prendere a calci il pallone.
È nella hall of fame che si incontra un’altra vecchia conoscenza del calcio italiano. Tra i benemeriti c’è Arthur Antunes da Coimbra. Alias Zico, l’uomo per il quale Udine stava chiedendo l’annessione all’Austria e che insegnò al calcio italiano che si può sognare in grande anche in provincia.
A Zico, che ha concluso la carriera da calciatore al Kashima Antlers (in cui ha giocato dal ’91 al 1994) e poi ha allenato la nazionale (dal 2002 al 2006), hanno tributato un’incisione. E, in fondo, l’ha meritato: è stato lui (insieme a Holly e Benji) a far uscire il pallone asiatico dalla dimensione dopolavoristica. Facendolo diventare quello che è, un sogno con l’eco lontana.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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