È iniziata da sud, dai quartieri di al-Tash e al-Humeriyah, la liberazione della città di Ramadi. Ieri le Forze di mobilitazione popolare e l'esercito iracheno hanno annunciato il via a un'operazione pensata per riprendere il controllo del capoluogo della regione dell'Anbar e oggi hanno ottenuto i primi risultati.
Fonti delle forze di sicurezza parlano alle agenzie di un primo passo avanti, con gli uomini fedeli a Baghdad entrati nell'università di Anbar a Ramadi, pronti a cacciare indietro gli islamisti con il sostegno dall'alto degli aerei della coalizione internazionale e dell'aviazione irachena.
Non è però tutto positivo il bilancio della giornata. Almeno cinquantacinque soldati sono rimasti uccisi in una serie di attacchi suicidi a Falluja, condotti da uomini dell'Isis alla guida di veicoli imbottiti d'esplosivo. Una tattica ormai nota, che ha consentito ai jihadisti di fiaccare la resistenza a Ramadi, prima che gli uomini di Baghdad abbandonassero la città. Un fatto su cui si discute ancora molto.
Per qualcuno si è trattato di un momento di debolezza dell'esercito iracheno, e non il primo, mentre altrove si sminuisce la sconfitta e la si definisce soltanto una ritirata strategica dopo mesi d'assedio, in vista di una controffensiva che vede in prima linea le milizie sciite delle Forze di mobilitazione popolare.
Il premier iracheno ha affidato a loro, al Hashd al-Shaabi, il compito di riprendere il controllo dell'Anbar. Un rischio, in un'area a maggioranza sunnita. Le stesse tribù locali nei giorni scorsi hanno chiesto la mobilitazione delle milizie, ma non tutti i leader vedono di buon occhio la presenza di uomini vicini all'Iran o comunque legati allo sciismo. E il fatto che Ramadi sia caduta anche per il sostegno di alcuni elementi tribali all'Isis è più di un sospetto.
Un nome che divide
Persino il nome dato all'operazione minacciava di creare divisioni. L'offensiva era stata battezzata "Labayk Ya Hussein", una scelta con una forte connotazione religiosa, che si rifà all'imam Hussein, figura fondamentale dell'islam sciita.
Moqtada al-Sadr, imam radicale di Najaf, sciita anche lui, un tempo a capo dell'Esercito del Mahdi, si è detto certo che il nome "verrà mal interpretato", nonostante Hussein sia "un simbolo nazionale e un principe del jihad". Per evitare lo spettro di ulteriori divisioni settarie, le autorità hanno già ribattezzato lo sforzo bellico: si chiamerà "Labayk ya Iraq".
Cambia il nome, non l'obiettivo.
Gli iracheni vogliono mettere al sicuro l'Anbar e Salaheddin, allontanare l'Isis da Baghdad e dalla raffineria di Baiji, ancora contesa. Intanto l'ambasciatore iracheno a Roma, Saywan Barzani, chiama in causa ancora gli Stati Uniti: "I raid aerei della coalizione non sono abbastanza".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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