«Cucino il pesce in maniera deliziosa. Ho imparato da mia madre Hasna, era strepitosa ai fornelli. Forse è meglio armeggiare una padella piuttosto che un kalashnikov». Nella sterminata galassia della jihad ci si può anche imbattere in Ahmed Birar, 38 anni, «pentito» per necessità e rientrato in Marocco dopo aver combattuto prima nell'Esercito della Siria Libera contro i regolari di Al Assad e la scorsa primavera con gli uomini del califfato di Al Baghdadi. Sua moglie Musheera, ha una malattia invalidante, bisogna mandare avanti la casa di Fes (la città più medievale dell'intero Maghreb) e prendersi cura del piccolo Mansour. «In Siria è rimasto mio fratello Noori. Eravamo partiti insieme, animati dal desiderio di cambiare il mondo, perché l'Islam è il nostro cammino. Purtroppo Al Baghdadi è andato ben oltre gli iniziali propositi». Parla con freddezza e distacco Ahmed, passa oltre quando gli si domanda se in battaglia ha ucciso, ma negli attimi in cui indugia si distingue una risposta affermativa. Nel 2013 ha aderito al gruppo di ribelli siriani, qualche mese dopo è passato a far parte di una cellula che si chiama Sham Haraqat Al Islam (movimento amico del levante islamico), un gruppo composto da duemila combattenti, tutti marocchini. La base operativa e di arruolamento si trova a Fes. «Il governo Benkirane ha sostenuto di aver smantellato il gruppo, ma è solo propaganda politica - racconta - esiste una sorta di tacito accordo: loro non disturbano Haraqat e Haraqat non mette le bombe nei siti turistici. Altrimenti sarebbe la fine per l'economia del Paese». Più che tacito accordo sembra un ricatto vero e proprio perpetrato da un gruppo che «controlla» Fes, che si è già spinto fino a Outat El Haj, Zaio e che tenta di raccogliere proseliti anche a ridosso dell'Algeria. Ahmed dice di aver visto Al Baghdadi in persona predicare in una moschea di Raqqa. «Ha la capacità di ipnotizzarti. È riuscito a portare nella jihad le tecniche di comunicazione. Sotto questo aspetto Al Qaida era molto più teorica, quasi avvolta nel misticismo. È la concretezza che permette ad Al Baghdadi di arruolare migliaia di volontari. Che non torneranno a casa per farsi saltare in aria, non ce n'è bisogno». Secondo Ahmed al «califfo» basta ormai mandare messaggi nell'etere, affidarsi ai social network e migliaia di potenziali jihadisti che risiedono in Europa, nel Maghreb e negli Stati Uniti sarebbero pronti per lui all'estremo sacrificio. «Anche in Messico, persino in Sud America si stanno formando gruppi di simpatizzanti. Ecco perché Al Baghdadi non è interessato a rimandare a casa i guerriglieri che combattono per Isis».
Fa una certa impressione sentire parlare, dal vivo, e non dalle immagini di un video, come quelle cruenti del londinese John il tagliagole, un (ex) aderente al califfato. Nel suo racconto non c'è pentimento e neppure il timore di rivelare qualcosa che potrebbe mettere a repentaglio la sua vita, o quella della sua famiglia. «Non dico nulla di clamoroso. Tutti nel Maghreb sanno che per arruolarsi bisogna arrivare alla città turca di Kilis, al confine con la Siria. Neppure Erdogan controlla più quella zona. È un'enclave dei miliziani. È stato il predicatore britannico Anjem Choudary ad aprire la strada. Una volta arrivati in Siria i gruppi vengono separati a secondo della nazionalità. Al Baghdadi teme campanilismi e non mescola i combattenti. Il nostro era il gruppo africano più nutrito, ma quelli della Mauritania si stanno allargando. Sono loro il nuovo che avanza».
L'ultimo pensiero è per il fratello Noori, che combatte a Raqqa. «Ha vissuto per qualche mese da voi in Italia. Lavorava per un gommista a Reggio Emilia. Fino a martedì era vivo. Ci siamo sentiti. Adesso inshallah . Nella vita ogni scelta ha un prezzo».
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