Patrizia Fiocchetti è una combattente di natura. Per tredici anni, tra gli anni Ottanta e Novanta, ha combattuto sul campo il regime degli ayatollah nell’organizzazione Mojahedin del Popolo Iraniano, come responsabile della logistica militare del «Battaglione 14», un gruppo combattente formato da sole donne. Poi, rientrata in Italia, si è dedicata all’accoglienza e ai richiedenti asilo iraniani e poi afghani, alle vittime di tortura, nel Consiglio italiano per i rifugiati e con la Caritas di Roma. Scrittrice e attivista, è appena uscito il suo romanzo «Cosa c’è dopo il mare» (Lorusso Editore, collana Buck) per tre volte negli ultimi anni è andata in missione in Afghanistan: «Volevo capire le ragioni di chi fuggiva e comprendere meglio uno scenario complesso e travagliato dal punto di vista storico e politico; volevo sentire la voce della donne che vivono lì». Per questo sulla situazione delle donne in Afghanistan ha le idee chiare. «Ci sono organizzazioni di donne come Rawa, la Revolutionary Association of the Women of Afghanistan, che hanno deciso di rimanere nonostante il ritorno dei talebani al potere. Una scelta di resistenza che non coinvolge solo le donne di Kabul o delle città principali del Paese ma anche di quelle delle province rurali dove la presenza dei talebani è molto più cruenta e dove il cambiamento portato con le armi americane non è mai arrivato».
E come hanno deciso di agire?
«Su come si muovono non danno notizie, ma di certo vogliono mantenere attivi i canali di comunicazione con il mondo che hanno costruito negli ultimi vent’anni, anni in cui molte ragazze sono diventate attiviste. Sanno muoversi e molte non da adesso. Proprio perché sono decise e preparate hanno deciso di restare».
Che succederà adesso?
«La loro ostilità nei confronti dell’occupazione americana, dei signori delle guerra che sono stati messi al potere e dell'oscurantismo dei talebani è dichiarata. Hanno fatto dei diritti delle donne non solo un fatto socioculturale, ma politico. Per questo sono considerate nemiche e per questo si sono consegnate alla clandestinità».
Cosa chiedono?
«Innanzitutto di non spegnere i riflettori, di non smettere di parlare di loro, di portare nel mondo le loro parole. Perché se l’opinione pubblica internazionale smetterà di parlarne sarà il buio».
E basta questo?
«Certo che no. Un grosso aiuto sarebbe non riconoscere il governo talebano, ma ci vorrebbe grande coraggio da parte della comunità internazionale. Se non riconosci il governo, riconosci chi si batte contro il governo. Cioè un gruppo di donne laico, democratico, indipendente che si batte per l’autodeterminazione che è la base di ogni democrazia. Sennò non si capisce perché siamo andati a fare questa guerra in Afghanistan e perché abbiamo occupato una Nazione».
E in questo caso cosa potrebbe succedere?
«Non riconoscere i talebani vuol dire non aiutarli economicamente cioè metterli in crisi e accentuare le spaccature interne che esistono tra loro. Non sono più quelli che obbedivano a un capo assoluto come il Mullah Omar».
C’è un dramma umanitario da gestire adesso.
«Gli afghani sono stati per anni la maggior parte dei profughi, poi sono diventati i siriani. E se scappavano dalla loro terra è perchè nonostante l’occupazione le cose non erano migliorate per niente e la cosiddetta democratizzazione del Paese non è mai esistita. Sull’Afghanistan c’è stata una narrazione superficiale a volte per mancanza di conoscenza, altre volte però per colpe precise».
Quella delle donne afghane è una lotta partita da lontano.
«Rawa è un’associazione rivoluzionaria, fondata nel 1977 da quell’incredibile donna che è stata Meena Keshwar Kamal, poi assassinata alla fine degli anni Ottanta. Con l’occupazione sovietica fece un salto di qualità passando dall’attivismo civile a quello politico. Combattevano e combattono i signori della guerra , gli imperialismi tutti e gli jihadisti. Lottavano per i diritti umani, civili e politici delle donne».
Di loro però si è sempre saputo poco.
«Perchè è passato il messaggio della donna con il burqa, non della donne resistente. L’occupazione occidentale a guida americana dopo i bombardamenti ha consegnato il Paese a chi ha permesso che i talebani andassero al potere e che in venti anni si sono arricchiti con la corruzione. Le forze di donne democratiche c’erano in questi venti anni, perché non sono state mai aiutate?»
Ma ora promuoveranno una grande manifestazione.
«Il 25 settembre Rawa darà vita a una mobilitazione in tutto il mondo, per tenere viva l’attenzione sulla loro drammatica realtà, l’attenzione del mondo è fondamentale».
E che altro si può fare?
«L’angoscia per la loro sorte ce l’abbiamo tutti. Le donne afghane chiedono di fermare tutte le forme di sostegno ai talebani, di porre fine all’imperialismo, al militarismo e al fondamentalismo religioso; chiedono di sostenere il diritto dell’autodeterminazione che sta alla base di ogni democrazia. Chiedono di evacuare donne, uomini, difensori dei diritti umani, chiunque voglia lasciare il Paese e garantire loro la fuga».
Un errore da evitare?
«Se parli di difendere le donne e poi vai a sostenere economicamente i paesi vicini per soccorrere i profughi allora non ci siamo. Stiamo parlando di Pakistan, Uzbekistan, Tagikistan e Iran. Non si può».
Le proposte concrete?
«Creare un osservatorio indipendente a maggioranza femminile per monitorare la situazione, accogliere i rifugiati, aprire corridoi umanitari e stroncare le politiche commerciali che traggono profitto dalle guerre in Afghanistan. Questo è l’impegno che verrà ribadito il 25 settembre»
Manca però da sempre una vera mobilitazione globale.
«Si sono creati eventi anche molto partecipati per far conoscere queste realtà e ci sono stati media che hanno tenuta accesa la luce. Ma mi sono domandata anch’io le ragioni di questo silenzio, sono cose che non so spiegarmi».
Le donne afghane sembrano trattate da sorelle minori
«Non sono sorelle minori soprattutto quelle che sono in prima linea.
Quindi come muoversi?
«Credo che sia importante per gli occidentali assumersi la responsabilità del disastro afghano e mobilitarsi per sostenere le ragazze che combattono. Ora più che mai».
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