Il Covid ha rappresentato l'11 settembre del mondo. Così come, dopo l'attentato alle torri gemelle, i cittadini statunitensi, per la prima volta, non si sono sentiti più sicuri a casa propria, il coronavirus ha gettato ogni abitante del mondo nell'incertezza del proprio futuro, mettendone in discussione la stessa sopravvivenza. La paura di un nemico nascosto, imprevedibile e non contrastabile, aumenta la diffidenza nei confronti dell'altro, visto come potenziale veicolo di contagio, e amplia i gap sociali g ià oggi esistenti. Tuttavia, la potenza devastante del virus non ha impattato solo sui singoli, ma getta ombre inquietanti sulla sicurezza internazionale. Negli ultimi decenni, i conflitti si sono progressivamente ibridizzati, anteponendo agli strumenti puramente militari una serie di minacce destinate a indebolire l'avversario: le leve economiche, la propaganda, gli attacchi informatici, l'utilizzo delle tegnologie spaziali, rappresentano alcune delle caratteristiche della guerra ibrida. Oggi, i conflitti coinvolgono ambiti precedentemente ignorati, come lo spazio cibernetico e lo spazio extra-atmosferico.
Ora, con il COVID-19 ci troviamo di fronte a un nuovo spazio assai più infido e difficilmente controllabile: quello batteriologico. Come non immaginare che questo spazio non possa essere sfruttato per una ulteriore e più devastante ibridizzazione dei conflitti? Potrà essere uno scenario da James Bond, ma non si può escludere che l’elaborazione di nuovi virus possa costituire un nuovo e assai più drammatico rischio per la sicurezza del mondo, di fronte al quale la comunità internazionale potrebbe non essere adeguatamente preparata. Queste nuove minacce vanno affrontate in modo multilaterale. Così come dopo la seconda guerra mondiale, per garantire la ricostruzione e una pace duratura, l’Occidente ha creato i grandi organismi internazionali, il virus deve oggi, paradossalmente, diventare lo spunto per un rilancio del multilateralismo contro ogni tentazione isolazionista. La Cina avrà un ruolo fondamentale in questo inevitabile lavoro: senza il colosso orientale è impossibile che la prevenzione dei nuovi rischi abbia successo. L’Italia, che celebra quest’anno il cinquantesimo anniversario dell’apertura delle relazioni diplomatiche con Pechino e che per prima ha drammaticamente affrontato il COVID, facendo tristemente da apripista per tutti gli altri Paesi, deve contribuire a rafforzare il dialogo con la Cina nelle grandi sedi internazionali. Analogamente, in sede multilaterale andrà individuato un nuovo modello di sviluppo delle relazioni economiche che permetta di affrontare le fragilità dell’attuale globalizzazione, i cui limiti sono apparsi evidenti con la pandemia. Il dato più eclatante è stata certamente la fragilità delle catene produttive eccessivamente lunghe.
Già prima dell’esplosione della pandemia erano allo studio politiche di reshoring da parte di molti Paesi che, attraverso incentivazioni economiche, fiscali, autorizzative, cercavano di riattrarre produzioni che erano state delocalizzate. Questi interventi rispondevano ad una strategia di rafforzamento dei sistemi economici nazionali rispetto allo strapotere di altre economie più competitive. Oggi, la necessità di accorciare le catene, particolarmente nelle produzioni e nei settori strategici, è drammaticamente imposta dalla evidenza della pandemia e delle sue conseguenze: la loro interruzione, in un qualsiasi punto del processo, può mettere in crisi la sopravvivenza stessa di intere popolazioni. Il reshoring può pertanto essere uno degli strumenti per garantire all’intera umanità le migliori condizioni per prevenire le conseguenze di fatti drammatici e inaspettati come una grande epidemia. Anche in questo caso, occorre però un approccio multilaterale che ridisegni il modello di sviluppo economico complessivo. La Cina costituisce uno dei principali soggetti che, non senza un enorme sforzo, dovranno lavorare a questa ridefinizione condivisa dei modelli di sviluppo.
Il nostro Paese, a sua volta, dovrà farsi trovare pronto alla sfida.L’autore è Consigliere di Amministrazione della Fondazione De Gasperi, già Presidente della Assemblea Parlamentare della NATO e non-resident Senior Fellow, Atlantic Council, Washington D.C
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