Suzanne era arrivata a Dubai da dieci giorni decisa a lasciarsi il passato alle spalle con i suoi amori finiti e suoi rancori infiniti. Aveva preso alloggio al Bar Dubai Hotel, un cinquestelle da 400 euro a notte, ma Suzanne, «la Perla del Libano», la ragazza più bella della terra dei cedri, poteva permettersi quella vita. Era una popstar da milioni di fan, la chiamavano la «Madonna del Medioriente», e non per ragioni religiose, anche se da un paio di anni viveva nascosta da tutti e tanti le avevano fatto il vuoto intorno. Colpa di un concerto che non doveva fare e di un uomo che avrebbe dovuto ignorare. Aveva cantato, mettendoci anima e cuore, Lovers in memoria di Rafiq Hariri, uno dei cinque uomini più ricchi del mondo, il premier del Libano moderato e antisiriano. Se n’era andato, polverizzato da un attentato suicida, una mattina di San Valentino del 2005 fa mentre la sua auto passava davanti all’hotel St. George, sul lungomare di Beirut. Morì come si muore spesso in Libano per una bomba, potentissima, così devastante da distruggere gli edifici intorno: ventuno persone uccise, lui compreso, quasi tutte mai più trovate. Chi sia stato ancora non si sa: di certo, ha appena sentenziato il Tribunale speciale per il Libano, il mandante non è la Siria e nemmeno Hezbollah, anche se si rifiuta di consegnare l’unico condannato Salim Jamil Ayyash, un militante del Partito di Dio degli sciiti libanesi, la mente criminale dell’attacco.
Hariri aveva molti nemici, stare dalla sua parte, prima e dopo la sua morte, voleva dire entrare nel mirino di chi lo odiava. Anche Suzanne ha tanti nemici e non tutti sospettabili. Gli integralisti islamici per esempio che mal sopportano, prima che la sua testardaggine a voler essere una donna libera, l’esempio che rappresenta per le giovani generazioni: è una donna scomoda per il mondo arabo meno tollerante e con quelli non c’è mai da scherzare. Ma a odiarla è anche qualcuno dei suoi uomini, troppi, che ha ancora qualche conto in sospeso con lei. Il suo ex marito e ex manager Adel Matouk per esempio che lei ha accusato con parole dure di volerla trasformare in una bella senz’anima sottomessa e devota solo a lui, il contrario di quello che è. Per questo di punto in bianco rompe il quindicinale contratto discografico che lo lega a lui in esclusiva. Il danno, per il marito respinto e abbandonato, è pesantissimo non solo sul piano sentimentale: per fargliela pagare la porta in tribunale e il giudice dà ragione a lui: condanna a due anni di prigione e 200mila euro di danni da risarcire all’ex marito. Quanto basta per trasformare il sentimento in risentimento.
La vita sentimentale di Suzanne, entrata diciottenne nel mondo dello spettacolo vincendo il concorso canoro «Al Fann«, una specie di festival di Sanremo libanese, è sempre stata così: burrascosa, irrequieta, ribelle. A dispetto dei pericoli e delle convenzioni. Vive a Parigi dove conosce Matouk, poi torna in Libano e da lì si trasferisce al Cairo. Qui cerca di riprendere in mano una carriera trascurata «per colpa di troppi uomini» e segnata dai guai con la giustizia. Per anni è la primadonna della vita notturna del Golfo Persico, per anni regna sulle serate galanti abitate dai capricci di ricchissimi sceicchi. Rompe con il padre che si è sempre opposto alla sua carriera artistica e che non le ha mai perdonato due divorzi. Nessuno della famiglia gli parla più da anni quando arriva a Dubai. Difficile tornare indietro, difficile ricominciare da capo, anche se la città dei lussi sfrenati e dei grattacieli che non finiscono mai sembra regalargli l’illusione di un’altra vita, forse finalmente quella giusta.
Quel giorno di fine luglio però non si accorge, nel grande andirivieni che c’è nell’albergo, di una figura strana, che la fissa da dietro gli occhiali scuri e che non si perde uno solo dei suoi movimenti. La mattina del 28, dieci giorni dopo il suo arrivo, quello stesso uomo, con aria rassicurante e un sorriso largo così, è davanti alla porta dell’appartamento di Suzanne al 2204 della Rimal 1 Tower, ventisettesimo piano. Dice di essere un agente immobiliare e di avere un affare da proporle. Non deve comprare casa e dovrebbe essere diffidente ma stranamente non lo è. Appena apre la porta viene raggiunta da una coltellata alla gola così violenta che quasi la decapita. Poi il killer chiude la porta e finisce il suo lavoro secondo istruzioni ricevute cancellando a rasoiate ciò che Suzanne ha di più prezioso, il volto splendido da madonna orientale, i suoi occhi a mandorla color ambra. Poi esce senza che nessuno lo veda, prende un taxi, raggiunge l’aeroporto e un’ora dopo è in volo verso Il Cairo pronto a ritirare il compenso per la sua missione: due milioni di dollari. Sorride godendosi il volo, non sa ancora di aver commesso un errore incredibile per un professionista.
Gli agenti che arrivano sul posto, dopo l’allarme lanciato da una cameriera, inorridiscono alla vista di Suzanne. Chi l’ha ridotta così, la faccia a brandelli, non voleva solo ucciderla, voleva anche punirla. Stava provando una serata di gala: aveva addosso un luccicante abito da sera trapuntato di strass e paillettes con coda da sirena. Pensava fosse il momento di tornare alla vita.
All’inizio, ma per poco, sospettano dell’ex marito, ma la pista giusta sta nella scala di sotto dove il killer, come un dilettante, ha abbandonato i suoi abiti sporchi di sangue. Per la polizia è un attimo arrivare a lui. Si chiama Mohsen El Sokary, è un ex poliziotto, la guardia del corpo di un magnate molto potente. Lo arrestano tre giorni dopo l’omicidio mentre esce dalla piscina di un lussuoso albergo di Sharm El-Sheik di proprietà del suo datore di lavoro. Non ci vuole molto a farlo confessare. A commissionargli l’incarico, colpo di scena, è stato l’ex amante di Suzanne, il magnate Hashim Taalat Moustafa: il suo datore di lavoro.
Non è un uomo qualunque Moustafa: è socio del presidente Mubarak, membro del Partito Democratico Nazionale che governa il Paese e della Commissione finanze del Senato. A 49 anni è uno degli uomini più ricchi dell’Egitto, proprietario di un colosso immobiliare, da diecimila dipendenti. Pochi però sapevano di quella storia segreta. Di quell’uomo sposato che aveva chiesto a Suzanne di diventare la sua seconda moglie, di quel no gridato in faccia con orgoglio, di quell’uomo, l’altro uomo, Riyadh Al-Azzawi, un pugile anglo iracheno, che l’aveva travolta di passione. L’umiliazione aveva armato la vendetta, nessuno poteva trattarlo in quel modo, tantomeno un pugile pezzente, tanto meno una donna. È un intoccabile di famiglia musulmana religiosamente conservatrice. Ma stavolta non c’è salvezza nemmeno per lui, troppe le prove che lo incastrano. Gli avvocati provano a dire che «più di una persona voleva uccidere Suzanne Tamim» e che i pm hanno portato in tribunale solo prove indiziarie. Ma la confessione non lo è. Comprare l’innocenza è impossibile anche per uno come lui anche se la famiglia di Suzanne, quella che l’aveva ripudiata, giura in aula che Moustafa non c’entra «sinceramente convinti della sua innocenza». Non ci crede nessuno, tantomeno alla buonafede dei parenti. La condanna è tremenda, impiccagione, il massimo della pena, anche se per essere applicata deve avere la ratifica dal gran mufti, che non arriverà mai. Anzi un nuovo processo trasforma la pena di morte in una condanna a quindici anni di carcere. Ergastolo invece per il sicario.
Come finisce? Mohsen El Sokary, il sicario, è tra i 3.157 prigionieri graziati tre mesi fa dal presidente al-Sisi per festeggiare la fine del Ramadan.
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