Il radicalismo nel nome dell'islam

Una riflessione approfondita sulla crescente malattia del fondamentalismo radicale in Europa. L'intervista esclusiva de IlGiornale.it al professore Carlo degli Abbati

Il radicalismo nel nome dell'islam

“La radicalizzazione che si manifesta è la somma di fattori storici, antichi e recenti, riguardanti sia il Medio Oriente che l’Europa. Vanno dal cambiato contesto mediorientale alla percezione occidentale dell’Islam e alle caratteristiche della comunicazione religiosa nel nuovo mondo globalizzato”. A parlare a ilGiornale.it è il professore Carlo degli Abbati, docente di Scienze Politiche all’Università di Genova, è autore del saggio Il radicalismo nel nome dell’Islam. Una responsabilità condivisa? (Aracne Editrice).

Quali sono le cause della radicalizzazione?

A partire dalla metà degli anni ’70 - cioè dalla sconfitta nella seconda guerra arabo-israeliana e dalla morte del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser - con il tramonto della ideologia del nazionalismo laico socialista panarabo, si è assistito a una generale riaffermazione del religioso nel quadro del mondo musulmano. Si sono affermati progressivamente dei movimenti di reislamizzazione della società che si sono fatti espressione di una contestazione, di una rottura con la società occidentale e i valori fondanti del sistema sociale risultante dalla decolonizzazione, quali il socialismo arabo e il terzomondismo. In seguito, la rottura si è poi estesa anche al liberismo, dopo gli effetti di impoverimento degli strati popolari prodotti dalle condizioni internazionali dei prestiti concessi dagli organismi internazionali di credito a questi Paesi, a cominciare dall’Algeria. In questo contesto rapidamente mutato, l’Arabia Saudita, nel suo ruolo di propagatrice della fede sunnita perché conservatrice dei Luoghi Santi di Mecca e di Medina, ha avuto buon gioco, grazie all’indefettibile e acritico sostegno americano e alla forza dei petrodollari, a sostenere delle correnti politiche wahhabite-salafite, ispirate cioè alla lettura più letterale, rigorista e normativa dei testi sacri e alla utopia retrospettiva del ripristino dell’epoca d’oro del Califfato delle origini, l’Islam dei salaf, i compagni del profeta Muhammad, gli assistenti (ansâr) e i compagni (muhâjhirun) dell’Egira. Questo ambiente generale ha favorito, accanto alla formazione di movimenti islamisti che semplicemente si richiamavano ad un progetto politico riferito alla religione musulmana, anche l’insorgere di un nuovo radicalismo, cioè l’apparire di una nebulosa di gruppi islamisti radicali, che possiamo definire come jihadisti, che predicavano la violenza in nome dell’Islam anche senza l’avallo di una autorità religiosa riconosciuta e quindi in piena violazione del dogma religioso (Al-Qaida, Boko Haram, Abu Sayyaf, Daesh o Stato Islamico).

E in Europa?

Il secondo fattore, appunto, questa volta specificatamente europeo, è legato alla percezione dell’Islam, alla difficoltà del mondo europeo di percepire l’Islam come una “alterità” non esterna, ma interna alla cultura occidentale, nel ceppo abrahamico delle tre grandi religioni monoteiste, e quindi alla disponibilità, espressa da molti settori politici e non, a considerare superficialmente le sette e movimenti che predicano la violenza in nome dell’Islam come espressioni connaturate a questa religione. C’entrano le vicende storiche a partire dallo spirito delle crociate, l’etnocentrismo cristiano incapace di riconoscere all’Islam una dignità etica e spirituale, e quindi all’origine di una costante rimozione dei suoi contenuti dalla cultura europea, la dominazione coloniale del mondo arabo, oltre che l’effetto di tensione e di paura provocato dall’avvento prima di una repubblica islamica in Iran nel 1979 e poi degli attentati di Al-Qaida a partire dal 2001. A cause diverse si può poi ascrivere la polarizzazione dei giovani europei verso questi movimenti jihadisti, che si possono definire come delle vere e proprie sette, riunite intorno a figure profetiche in senso weberiano, ieri Osama Bin Laden e oggi Abu Bakr al-Baghdadi, i cui contenuti ideologici - dall’obbligo individuale del jihad alla sublimazione del martirio per la fede - si sono sempre più allontanati dai valori dell’Islam tradizionale. Nel quadro di una globalizzazione cui si accompagna uno sviluppo straordinario delle tecniche di informazione e di comunicazione, innanzi tutto si affermano i due nuovi fattori della deterritorializzazione e della deculturazione. La deterritorializzazione non è solamente legata alla circolazione delle persone, ma riguarda anche la circolazione delle idee, degli oggetti culturali, dell’informazione. Ma per circolare l’oggetto religioso deve essere universale e quindi deculturato. Si è così rotto il legame fra le religioni e la cultura e si è affermato un grande mercato concorrenziale del religioso, dove ritrovare i componenti per una ricostruzione individuale di identità spirituale secondo un sempre più diffuso “fai da te”. Giovani recentemente convertiti soprattutto su internet o attraverso la influenza di gruppi di persuasione molto spesso formatisi al di fuori della rete delle moschee ufficiali (i “born-again Muslims”, 25% degli effettivi di Al-Qaida o Daesh), o in crisi di identità personale, o in opposizione dichiarata alla cultura tradizionale dei padri, o in odio contro una società da cui si sentono marginalizzati, o semplicemente inclini alla violenza, possono così vedere nel jihadismo capace ormai di grandi operazioni a partire da New York, una giustificazione, uno sbocco personale, di successo e notorietà immediata. Si è assistito anche ad una progressiva variazione nella composizione jihadista. Nel decennio ‘80 la base potenziale dei gruppi jihadisti è la popolazione musulmana deteriterritorializzata, come indicato dalla prima generazione dei volontari partiti a combattere i sovietici dopo l’invasione dell’Afghanistan, quasi sempre fortemente ideologizzati nell’ambito di organizzazioni islamiste di Algeria, Egitto, Pakistan e Arabia Saudita. A partire dagli anni ’90, invece, abbiamo fra le reclute l’apparizione di giovani europei senza passato militante, spesso, ma non sempre, appartenenti alla periferia sia nella loro società che nelle loro traiettorie personali, e molto spesso costituiti da convertiti recenti (¼ delle forze storiche di Al-Qaida), reislamizzati, i born- again muslims, appunto. Questo fenomeno vale nella stessa misura per Francia e Belgio, ma anche per gli altri paesi europei. Nel caso poi della Francia c’è in più da prendere in conto la lunga storia coloniale con i paesi del Maghreb, il problema delle periferie dove sono confinati i discendenti dei maghrebini chiamati nella madepatria per sostenere lo sviluppo industriale del paese e poi largamente marginalizzati in quanto mai completamente accettati dallo hard-core della società francese. Delle Sodoma e Gomorra francesi , che possono formare un idoneo terreno di cultura del jihadismo. In questo senso, il filosofo Onfray può affermare che l’islamofobia è all’origine degli attentati di Parigi e il politologo Roy sostenere che le manifestazioni terroristiche sono legate in Francia alla islamizzazione del radicalismo più che alla radicalizzazione dell’Islam.

Di che numeri stiamo parlando?

I numeri più condivisi parlano di circa 1.500 jihadisti in Francia e 1.500 in Belgio. In generale si cita spesso un totale di 30.000 jihadisti diciamo internazionalisti di vari paesi accorsi a sostenere il Califfato. Ma occorrerebbe al riguardo una precisa ricostruzione se si pensa che già nelle cifre degli iscritti allo schedario “S” del ministero degli interni francese si passa a 5.000 - 10.000 persone.

I giovani sono i più attratti dall'estremismo. Come funziona il reclutamento?

I giovani vengono soggiogati per i motivi sopradescritti dagli obiettivi di violenza estrema nei confronti dei valori occidentali, espressi dalla comunicazione di Daesh, in varie lingue, che sino ad oggi è proceduta indisturbata, per tutte le vie di comunicazione consentite, basate anche sulla utilizzazione di satelliti europei. La rivista di Daesh in francese, Dar al-Islam, era sino a pochi giorni dopo l’attentato ancora perfettamente accessibile. E’ piuttosto il successo nella guerra dell’informazione jihadista ad assicurare il reclutamento, la stessa situazione che faceva dire al grande diplomatico americano Richard Holbrooke nel 2005 a proposito di Bin Laden: “Come può un uomo in una caverna comunicare meglio della più potente società di comunicazione del mondo?”. Daesh ha ulteriormente migliorato in tutti i sensi la modernità della sua comunicazione. A parte l’attività di gruppi di persuasione al jihadismo esistenti sul territorio, la rete è al principio la costante della maggior parte delle adesioni individuali e costituisce il nuovo terreno di lotta alla diffusione del jihadismo che va identificato in Europa. Molto di più delle più politicamente visibili operazioni di nuovo controllo di frontiere che sta studiando l’Unione Europea nell’ambito di una nuova conclamata War on Terror, guerra al terrore, secondo i metodi bushiani, già sperimentati con scarso successo dopo gli attentati di New York. Nella guerra globale agli oppositori, lo Stato Islamico presenta una struttura territorializzata e una deterritorializzata, si difende in Siria e Iraq e attacca all’estero, potendo anche contare sulla capacità tecnica di ex- appartenenti ai servizi militari e di sicurezza iracheni.

Si rifanno più allo Stato Islamico o ad Al-Qaida?

Oggi lo Stato Islamico attira molto di più che Al-Qaida. Fra Bin Laden e Abu Bakr al-Baghdadi la differenza sta nel senso del tempo. Bin Laden pensava - a differenza di Abdallah Azzam, che aveva creato l’“ufficio dei servizi” che poi divenne Al-Qaida - che l’obbiettivo del Califfato pur condivisibile era troppo lontano, che nel frattempo bisognava limitarsi ad attentare agli interessi occidentali. Abu Bakr ha invece voluto subito il Califfato e lo ha proclamato il 29 giugno 2014. Partecipare ad una avventura che unisce il senso del politico con il religioso e lavora alla creazione di un proto-stato su un territorio specifico esteso a Siria e Iraq è per i giovani molto più attraente che lavorare oscuramente alla preparazione di attentati secondo lo schema proposto da Al-Qaida.

Gli attentati a Parigi si potevano prevedere?

Si può concordare sul fatto che le agenzie di intelligence francesi, per effetto di diverse riforme di cui l’ultima risalente al 2013, sono troppe, poco coordinate e tendenti alla sovrapposizione delle proprie competenze. Dopo l’attentato di gennaio 2015 (Charlie Hébdo), una nuova legislazione ha segnato una svolta extra-giudiziale della lotta al terrorismo, con una intelligence rafforzata, ma che non risponde alla magistratura, bensì esclusivamente al potere politico. Da qui la critica dell’autorevole giudice francese Marc Trévidic impegnato per un decennio nelle indagini dei gruppi terroristici, anche se burocraticamente avviato a nuove funzioni poco prima dei recenti attentati di Parigi. Di fatto, gli autori degli attentati erano quasi tutti iscritti in un fiche segnaletica “S” emessa dal ministero degli interni, ma l’assenza di sorveglianza giudiziaria non ha permesso alle autorità di intervenire in via preventiva nei loro confronti. La preoccupazione di molta parte della magistratura francese è che la lotta al terrorismo si converta progressivamente in metodi extragiudiziali, amministrativi, in definitiva arbitrari, sull’esempio americano dopo il 2001, e finisca per costituire una scelta politicamente controproducente, oltre che pericolosa per le libertà democratiche. Il rinforzo delle strutture di investigazione, sin qui toccate in Francia come altrove, dalla ben nota austerità europea nei confronti dei bilanci nazionali, va quindi necessariamente accompagnata da un rafforzamento equivalente dell’apparato giudiziario.

Abbiamo commesso qualche errore in passato?

Le colpe sono evidenti, anche se la situazione non è il frutto di responsabilità esclusivamente occidentali. Resta che gli interventi delle grandi potenze nella regione hanno sempre conseguito dei risultati politicamente destabilizzanti. L’opposizione occidentale a Nasser, conseguenza del suo allineamento al campo filo-sovietico ha innescato, dopo la sua caduta, un generale ripiegamento del mondo arabo sul religioso, preparando il terreno per l’attuale radicalismo. L’intervento sovietico in Afghanistan nel 1978 e l’invasione del 1979 hanno completamento destrutturato lo stato afghano. L’appoggio americano ai gruppi islamisti radicali nel paese in funzione anti-sovietica ha in seguito preparato il terreno alla dominazione talebana e all’intreccio con Al-Qaida. La decisione americana con Bush sr. di evitare nel 1990 la mediazione del re Fahd di Arabia Saudita nel primo conflitto inter-arabo della storia contemporanea e di intervenire con 540.000 soldati nella guerra Kuwait-Iraq, ha alienato agli americani le simpatie di grande parte degli ambienti sauditi, poi esasperati dal mantenimento di un contingente militare americano sul sacro suolo saudita anche dopo i fatti di guerra. 1.500 soldati, che avrebbero potuto essere utilmente acquartierati nel Qatar o nel Kuwait appena liberato, in territori cioè privi dello stesso significato religioso. L’intervento voluto nel 2003 con Bush jr. in Iraq , dai neo-conservatori americani ideologicamente convinti di provocare a partire dall’Iraq un effetto domino “democratifero” nell’intero M.O., ha anche comportato la sistematica dissoluzione dell’apparato militare e di sicurezza ba`tista iracheno . Lo stesso apparato che oggi concorre in gran parte con i jihadisti sunniti iracheni a formare il nocciolo duro dello Stato Islamico. Inoltre, lo sconvolgimento degli equilibri regionali provocato dal passaggio alla maggioranza sciita del controllo dell’Iraq durante il governatorato americano di Paul Bremer, ha offerto all’Iran una influenza nella regione ben superiore al passato, provocando le inquietudini della seconda tradizionale potenza regionale, l’Arabia Saudita, che ha cominciato a fare ricorso ai gruppi radicali sunniti iracheni in funzione anti-iraniana. L’intervento franco-inglese in Libia del 2007, giustificato da vecchie teorie di interventismo umanitario sposate dal presidente francese, ed effettuato sulla base di una “torsione” dei contenuti di una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ha riportato la Libia alle frammentazioni tribali non più controllate dal governo autoritario di Gheddafi e anche avviato la destabilizzazione dei paesi sahelici africani. Infine, last but non least, gli interessi occidentali si sono sempre molto preoccupati della cattura delle risorse naturali dell’area e poco preoccupati della progressiva trasformazione della regione del M. O. in una polveriera sociale. Ora, il radicalismo si è nutrito delle crisi soprattutto economiche, ma anche politico-istituzionali che ha conosciuto il mondo arabo-islamico. L’esplosione demografica, in riduzione solo nei paesi del Maghreb, la crescente sperequazione fra ricchi e poveri, l’incapacità di adeguamento al progresso tecnologico, lo sfruttamento delle materie prime da parte di gruppi economici e organizzazioni esteri, la durezza repressiva della società civile da parte di regimi corrotti e tirannici. Queste circostanze hanno fornito il terreno di coltura del radicalismo e della violenza, nel quadro di una generale povertà che l’imitazione delle politiche ultraliberalistiche, antistataliste, proposti dalle organizzazioni internazionali di credito non hanno fatto che aggravare, per esempio nell’Algeria del FLN a partire dal 1986 o nell’Egitto di Sadat o Mubarak fra il 1980 e il 2010.

Cosa possiamo fare ora?

Non penso che nella opposizione a Daesh si sia giunti a un punto di non ritorno. Per sopravvivere e mantenere una popolazione di 7 milioni di persone lo Stato Islamico come proto-stato ha bisogno di fondi. Se si esaminano le sue risorse, si può ritenere che, passato il momento escatologico, il modello proposto non sia sostenibile finanziariamente nel medio-lungo periodo, anche per effetto dei mezzi anche militari della coalizione che è riuscita a creare contro di sé. Il vero problema è che la reazione solo militare, quella più facilmente attivabile, va completata con una azione politica e diplomatica internazionale di “sfiancamento” dello Stato islamico, le cui componenti risultano di ineguale difficoltà di realizzazione: vanno dal blocco della diffusione del wahhabismo propagato dalla Arabia Saudita e dai paesi del Golfo, dalla fine della persecuzione dei Fratelli Musulmani in Egitto, dalla reinclusione delle tribù sunnite nel futuro politico del’Iraq e dal rafforzamento dell’esercito iracheno, dalla risposta efficace agli squilibri socio-economici della regione medio-orientale che si è progressivamente trasformata in una “polveriera sociale”, come dimostrato anche dalle rivolte arabe dal 2010, sino alla ripresa della ricerca di una soluzione del conflitto israelo-palestinese.

Questo nell’ambito dei due punti interrogativi principali rappresentati dal comportamento dei due paesi fondamentali nella regione, la Turchia di Erdogan, che dimostra di ritenere il problema curdo molto più importante di Daesh, e l’Arabia Saudita, per la quale il problema più importante è l’opposizione all’Iran e al suo modello riuscito di repubblica islamica.

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