Silvia, retroscena sul villaggio: "Succedevano cose strane lì..."

Chakama è il "luogo oscuro" dove avvenne il sequestro. Gianfranco Ranieri della Onlus Karibuni ha dei sospetti

Silvia, retroscena sul villaggio: "Succedevano cose strane lì..."

Il caso di Silvia Romano ha portato al centro della questione il villaggio di Chakama, dove nel novembre del 2018 avvenne il sequestro. Un luogo precedentemente pressochè sconosciuto ai più, per poi ritrovarsi improvvisamente catapultato al centro dell'attenzione mediatica. Inoltre, potrebbe essere proprio a Chakama una delle "chiavi" per capire alcuni di quegli aspetti ancora avvolti nel mistero sul sequestro della Romano. Abbiamo dunque parlato con Gianfranco Ranieri, imprenditore e "veterano" del Kenya nonchè presidente della Karibuni Onlus che da anni opera nel Paese con una serie di iniziative che vanno dalla costruzione di scuole che ospitano più di 5mila ragazzi, alla coltivazione e produzione di alimenti, alla preparazione di team medici ma anche con decine di attività avviate grazie al micro-credito.

Chakama ha assunto un po' dei tratti contrastanti dalle descrizioni mediatiche che ne vengono fatte; un piccolo villaggio spensierato dell'Africa rurale che poi improvvisamente assume le sembianze di un "buco nero" dove può accadere di tutto. È proprio per questo che ci ha incuriosito il suo riferimento al villaggio come “puttanaio”. Ci potrebbe spiegare cosa c’è realmente a Chakama?

In realtà non ricordavo di averlo detto, ma se anche l’avessi fatto, vorrei chiarire che non mi riferivo al villaggio in sé, perchè Chakama è uno dei tantissimi che ci sono in Kenya, povero, come ce ne sono tantissimi. Con puttanaio mi riferisco a una situazione precisa sulla quale mi pongo una domanda e cioè perché in tutti questi anni ci sono state alcune onlus italiane, private, che hanno concentrato la loro voglia di solidarietà proprio su questo villaggio? È una cosa strana, perché non è che Chakama sia più povero o più problematico di altri villaggi. E’ un’attrazione strana, particolare.

Tanti soldi, quindi tanti progetti e strutture?

A Chakama sono stati spesi tanti soldi, ma non si capisce per cosa, visto che oggi nel villaggio è rimasta una piccola scuola costruita da italiani ma presa in carico dal governo kenyota perché altrimenti sarebbe stata chiusa; poi ci sono alcuni bambini sostenuti da una signora italiana. Orfanotrofi non mi risulta che ce ne siano. Mi dica lei se c’è da esserne orgogliosi. Sono dunque soldi che sono stati spesi male, senza una logica, senza un controllo, senza un qualcosa che potesse giustificare questa attenzione, questi impegni, queste raccolte fondi, perché ce ne sono state diverse in Italia per progetti orientati su questo villaggio. Quando dico puttanaio, non mi riferisco alla gente di Chakama, ma a questa stranezza. Ci sono stati anni in cui tutti gli italiani andavano a Chakama ma non si capiva per fare cosa. Chakama è un villaggio come tanti, un classico villaggio africano con un po’ di case, ma non ci sono né bar e neanche ristoranti, come invece ho letto su alcuni giornali.

Dunque la vita di Chakama su quali attività si basa?

Chakama vive prevalentemente di un po' di agricoltura, di allevamento. Non ci sono coltivazioni intensive, nessun allevamento particolare. E’ come tanti altri villaggi che ci sono qua; c’è un’economia piccola, non c’è turismo perché è fuori da quei circuiti, anche se pian piano alcuni turisti iniziavano a venir portati a Chakama dalla costa. Si vedono situazioni brutte, ma non strane perché sono tipiche di ogni villaggio. Si vedono situazioni di povertà e dunque la gente è più propensa poi ad aprire il portafoglio; c’è Chakama come ce ne sono tanti altri. Il territorio è arido seppur vicino a un fiume che sarà largo cento o duecento metri, a volte in piena per via delle alluvioni, ma in altri periodi c’è mezzo metro d’acqua e si passa a piedi.

Il fiume citato nelle ricostruzioni dove si sarebbe recato uno dei due Masai in quel breve tratto di tempo in cui Silvia venne lasciata da sola?

Esatto. Quel fiume è un po’ una “deadline”, se fossero riusciti a fermare i sequestratori prima che oltrepassassero il fiume, si sarebbe riuscito a riportare Silvia a casa. Oltrepassando il fiume diventa tutto più complicato perché si passa in una zona boscosa e inizia un territorio che si inoltra poi sempre più verso la Somalia.

Sul sequestro di Silvia Romano che idea si è fatto?

Silvia è capitata lì per caso; è successo a lei perché era lì in quel momento, ma poteva capitare a chiunque. La cosa però non è stata improvvisata, tenevano d’occhio la situazione; io ne ho visti di questi ragazzi di etnia “Orma” (pastori nomadi originari della Somalia ma insediatisi da tempo in territorio kenyota), tutti molto giovani, erano sia a Malindi che a Chakama. Magari avevano qualcuno nel villaggio che controllava la situazione e vedendo una persona sola si sono mossi. Lì probabilmente c’era un meccanismo già attivo e programmato da tempo. Un’azione del genere non si improvvisa. Tra l’altro a Chakama non c’è neanche il posto di polizia e questo loro lo sapevano, quindi non hanno avuto difficoltà ad attivarsi, sparando anche con le armi, perché hanno tra l'altro causato il ferimento di cinque persone. Oltretutto questo è il primo caso. Io vengo qui da anni e ve lo posso assicurare. Non solo a Chakama, ma in tutta la zona non si sono mai verificati fatti del genere. Episodi di delinquenza ci sono sempre stati, in particolare sulla costa, un po’ come ovunque del resto, ma io mi sento molto più tranquillo qua che in Italia. Purtroppo è stata data un’idea sbagliata di questa zona che è sempre risultata tranquilla.

La onlus con cui lavorava Silvia, la Africa Milele, era nota a Chakama?

Si certo, a Chakama era conosciuta perché sono bravi a fare marketing via web, via social, però cose concrete se ne sono viste poche. Io sono un imprenditore e abbiamo creato un’associazione con l’obiettivo di dare lavoro e questo significa gestire le cose in un certo modo e con quello che produciamo diamo da mangiare a mille e duecento persone. Loro facevano giocare i bambini, ma questo non è un progetto sociale di cooperazione. I bambini africani sono talmente abituati a non avere nulla che giocano tranquillamente da soli con quello che trovano. Poi sui costi, mandare a scuola un bambino per un anno costa un centinaio di euro; il pasto di un bambino costa sui 40 centesimi di euro. Sarebbe sufficiente andare a vedere i bilanci e chiedere con una certa somma cosa si è fatto, quanti bambini sono stati mandati a scuola, quanti bambini hanno mangiato. Con i numeri e i dati si vede cosa si è lasciato di concreto.

Occupandomi del settore, mi dà fastidio che si parli della cooperazione italiana in quel modo lì (Africa Milele) quando ci sono fior di organizzazioni che lavorano in modo serio. Non è un'immagine piacevole per l’Italia e se ne sta tra l’altro parlando tanto su giornali e telegiornali.

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