La Svezia al voto nell’incertezza tra immigrazione e populismo

Svezia, gli effetti dell’immigrazione di massa e gli ostacoli istituzionali sollevano lo spettro dell’ingovernabilità in vista delle elezioni del 9 settembre

La Svezia al voto nell’incertezza tra immigrazione e populismo

La Svezia terrà elezioni legislative il 9 settembre prossimo, in un clima sociale e politico reso volatile dalle conseguenze dei massicci afflussi migratori degli scorsi anni e dall’indebolimento delle formazioni politiche più longeve.

Il paese scandinavo attraversa una crisi profonda. Gli effetti di decenni di politiche votate a fare della Svezia una “superpotenza umanitaria” e un utopico paradiso egalitario, si sono drammaticamente palesati questo mese, quando in un solo giorno bande di “giovani” richiedenti asilo hanno dato alle fiamme oltre un centinaio di autovetture in diverse città svedesi. I roghi di automobili, così come gli attacchi con sassi e bombe a mano ad autopattuglie, autopompe e ambulanze, sono fenomeni con cui le autorità svedesi fanno i conti ormai da oltre un decennio, e che negli ultimi anni si sono ulteriormente intensificati. La violenza di strada, le violenze sessuali e la moltiplicazione di vere e proprie enclavi urbane (le cosiddette “no-go zones”) preda della criminalità comune e organizzata sono soltanto alcuni dei sintomi di oltre vent’anni di politiche di integrazione sconsiderate, come ha ammesso Ulf Kristersson, leader del Partito Moderato svedese, in un’intervista concessa pochi giorni fa al “Financial Times”.

La Svezia, ha dichiarato il politico moderato, si trova oggi in una situazione peggiore rispetto a quella della crisi finanziaria degli anni Novanta. In un paese che ospita il maggior numero di rifugiati pro-capite dell’area Ocse, e dove oltre un sesto della popolazione è costituito da immigrati – fornire dati precisi è difficile, in quanto lo Stato rifiuta di operare distinzioni statistiche su base etnica – l’accelerazione del processo di auto-cancellazione identitaria è simboleggiato dalla deriva iconoclasta degli enti archeologici nazionali, che con il plauso della politica hanno intrapreso la sistematica distruzione dei reperti dell’età del ferro e vichinghi di nuova scoperta. L’afflusso continuo e massiccio di richiedenti asilo, assistiti e mantenuti a spese dei contribuenti, ha anche posto un onere insostenibile sullo stato sociale svedese, che pure, nell’immaginario collettivo occidentale, costituisce ancora un ineguagliato modello di efficienza e inclusione. Contrariamente alla percezione generale, la Svezia è oggi uno dei paesi caratterizzati dalla maggior diseguaglianza di reddito in Europa. La sanità pubblica è tra le più disfunzionali del Vecchio continente, oltre 350mila pensionati vivono sotto la soglia di povertà e il paese sconta un’annosa penuria di alloggi, aggravata dal continuo afflusso di richiedenti asilo. L’indebitamento delle famiglie svedesi è assai superiore alla media europea, e pone una preoccupante ipoteca sull’economia.

Le elezioni generali del 9 settembre prossimo si terranno dunque in un contesto caratterizzato dalla grave e prolungata assenza di risposte politiche ai problemi sempre più pressanti di un paese che fatica ormai a riconoscere se stesso. La preoccupazione legata agli effetti dell’immigrazione di massa, all’aumento della criminalità violenta e al peggioramento delle condizioni di vita stanno ridefinendo il panorama politico del paese: i Democratici Svedesi, partito nazionalista di orientamento euroscettico e contrario all’immigrazione, ha visto aumentare rapidamente i propri consensi nei sondaggi, e oggi si attesta attorno al 20 per cento, più o meno alla pari con le due principali formazioni politiche della Svezia: il Partito Socialdemocratico dei Lavoratori, principali azionisti del governo uscente, e il Partito Moderato di centrodestra, che ha governato tra il 2006 e il 2014, e che con la Sinistra ha condiviso l’apertura all’immigrazione degli scorsi decenni.

Queste due formazioni politiche si sono progressivamente indebolite in concomitanza con l’approssimarsi delle elezioni: I Moderati, cui lo scorso gennaio la media dei sondaggi nazionali attribuiva oltre il 24 per cento dei consensi, sono scivolati sotto la soglia del 20 per cento. L’erosione di consensi dei Socialdemocratici, attualmente al governo, è ancora maggiore, e potrebbe concretizzarsi tra poche settimane nel peggior risultato elettorale mai conseguito da quel partito nell’arco di un secolo: dal 1914 ad oggi, infatti, il partito di orientamento progressista ha sempre ottenuto oltre il 30 per cento dei voti. I sondaggi più recenti attribuiscono ai Socialdemocratici un consenso di poco superiore al 24 per cento: una percentuale che dovrebbe bastare a riconfermarlo primo partito, ma che segnerebbe anche il punto più basso per quel partito dal 1912.

La rapida affermazione dei Democratici Svedesi, che sono entrati in Parlamento per la prima volta nel 2010, conferma anche in Svezia il progressivo spostamento a destra dell’elettorato che ha interessato negli ultimi anni gran parte dei paesi europei. Jimmie Akesson, che guida la formazione nazionalista dal 2005, e che questo mese ha chiesto un referendum sull’adesione della Svezia all’Unione europea, è convinto che il suo partito diverrà presto il primo del paese, a prescindere dall’imminente responso delle urne. Dalle elezioni del 2014 l’Sd ha allontanato alcune delle sue frange più estreme per spezzare l’isolamento cui lo hanno sottoposto gli altri partiti; alcuni dei fuoriusciti hanno formato un nuovo partito, Alternativa per la Svezia, che si è fatto promotore di posizioni ancor più dure in materia di immigrazione e sicurezza. Questi sviluppi, assieme alla crescente ostilità dell’opinione pubblica alle attuali politiche migratorie, hanno spinto i Moderati ad aprire al dialogo selettivo con l’Sd su temi come quello dell’immigrazione.

La riluttanza dei maggiori partiti a far fronte al nuovo scenario politico, assieme agli ostacoli posti dall’assetto istituzionale ed elettorale svedese, preannunciano però uno stallo post-elettorale, che potrebbe culminare nella formazione di un governo di coalizione tra Socialdemocratici e Moderati simile a quello che sostiene in Germania il cancelliere Angela Merkel. Diversi fattori sembrano impedire che i mutati orientamenti dell’opinione pubblica svedese possano trovare diretta espressione nel profilo politico del prossimo Esecutivo. Anzitutto, il dominio pluridecennale dei Socialdemocratici sulla politica svedese si spiega in parte con la sfiducia e le divisioni che hanno caratterizzato, e continuano in parte a contraddistinguere, le formazioni politiche non socialiste. In secondo luogo, la Svezia ha una lunga tradizione di governi di minoranza: è questo il caso dell’attuale governo rosso-verde, guidato dal premier Stefan Lofven. Le problematiche legate all’immigrazione hanno causato crescenti divisioni all’interno dei due tradizionali blocchi politici del paese: l’Alleanza per la Svezia, che oltre ai Moderati include il Partito di Centro, il Partito Popolare Liberale e i Democratici Cristiani; e il Blocco rosso-verde, che oltre ai Socialdemocratici raggruppa il Partito della Sinistra e i Verdi. Vero è che queste divisioni, emerse soprattutto negli ultimi mesi, sono probabilmente ascrivibili in buona parte a alla sfera dei tatticismi pre-elettorali.

Sul dopo-elezioni pesano infine le peculiarità del sistema svedese di formazione dei governi. La Costituzione di quel paese, infatti, attribuisce il potere di nomina del primo ministro al presidente del Parlamento (Riksdag), che a tal fine si consulta con i capigruppo e i vicepresidenti. Il sistema svedese è detto di “parlamentarismo negativo”: il primo ministro svedese può rimanere in carica a patto di non essere espressamente sfiduciato dalla maggioranza assoluta dei parlamentari, fatto questo che spiega governi di minoranza. Dopo le elezioni, il presidente del Parlamento è anche chiamato a ricevere le dimissioni dell’Esecutivo uscente e ad occuparsi dell’amministrazione degli affari correnti, sino all’insediamento del governo successivo. Le dimissioni del governo dopo le elezioni, però, sono un passaggio normato sul piano consuetudinario, più che formale, e lo stesso vale per il profilo del presidente del Parlamento. Questi è solitamente un esponente del principale partito del blocco parlamentare che vanta la maggioranza relativa; a questo proposito, però, non esiste consenso tra le attuali formazioni politiche: il Partito Socialdemocratico, ad esempio, sostiene che l’importante carica istituzionale dovrebbe spettare a un esponente del partito più votato, a prescindere dal suo blocco di appartenenza.

Queste peculiarità di assetto istituzionale, assieme al sistema elettorale proporzionale, contribuiscono a mantenere in vita un sistema dei blocchi che è parso in crisi già nel 2014, e che negli scorsi anni ha dato prova di stabilità, ma anche di scarsa capacità decisionale.

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