La Mongolia medievale? Come l’America del ’900

Nella storia tormentata dell’Europa, non ci siamo fatti mancare nulla, quindi stilare una graduatoria fra le pagine più nere del continente è impossibile. Possiamo invece tranquillamente collocare nella casella del 1241 lo Scampato Pericolo Numero 1. Perché sul finire di quell’anno (davvero «di grazia»...) i nuovi Unni, cioè i Mongoli, improvvisamente, com’erano venuti poco prima, se ne andarono. Certo, in breve tempo avevano portato morte e devastazione a Mosca, a Kiev, in Polonia, Moravia, Boemia, Ungheria, e si erano affacciati persino sull’Adriatico, saccheggiando Spalato e Cattaro (oggi Kotor). Ma proprio per questo il respiro di sollievo che accompagnò la loro ritirata fu profondo, dalle rive dell’Atlantico a quelle del Mar Nero. Ritirata poi, si fa per dire. Quelli avrebbero volentieri proseguito chissà fin dove se non avessero dovuto affrontare una delicatissima questione di politica interna: la successione al terzo figlio di Genghis Khan, Ögödei, ucciso dall’alcol come molti suoi fratelli.
Ovviamente, in molti gridarono al miracolo. Ma i più perspicaci come il re di Francia Luigi IX detto «il santo», una volta ripresisi dallo choc, fecero un passo avanti. Il loro ragionamento era semplice: la pratica della Terrasanta, con relative Crociate, è tutt’altro che chiusa, si potrebbe verificare se, per caso, proprio quei terribili «barbari» possono darci una mano ad archiviarla. Quando poi si diffuse la voce che Sartach, il secondo Khan della temutissima Orda d’Oro, aveva una mezza idea di convertirsi al cristianesimo, alla teoria seguì l’azione. Azione cauta, cautissima, in puro stile francescano. Toccò infatti a un umile (ma coriaceo e motivatissimo) frate minore, Guglielmo di Rubruk, il compito di andare in avanscoperta. Non era la prima volta che degli occidentali si spingevano nelle immense terre ancora quasi del tutto incognite oltre le Porte di Ferro erette da Alessandro Magno tra il Caucaso e il Mar Caspio, in corrispondenza dell’attuale città di Derbend, nel Daghestan. Nel 1245-47 un altro francescano, Giovanni da Pian del Carpine, vi era stato per conto di papa Innocenzo IV, e da quell’avventura trasse la sua Historia Mongolorum; poi, in rapida successione, fu la volta di ben tre domenicani: Lorenzo del Portogallo, Ascelino (o Ezzelino) e Andrea di Longjumeau.
Ma ora quella del buon Guglielmo - accompagnato dal confratello Bartolomeo di Cremona, dal giovane clericus Gosset, dall’interprete Homo Dei e dal servo Nicola - è un’autentica missione diplomatica, poiché Luigi IX, con i mezzi necessari all’impresa, gli affida una cortese lettera da consegnare a Sartach volta a... sondare il terreno. Così, dopo aver partecipato con il suo re alla settima crociata, in due anni, dalla primavera del 1253 all’inizio dell’estate del ’55, partendo da San Giovanni d’Acri e tornando ad Antiochia, quel piccolo Kissinger medievale, a dorso di mulo o a piedi, patendo la fame, il freddo e l’angoscia, scontrandosi con i rozzi e stranissimi costumi di un mondo tanto vasto quanto ostile, diventa il primo vero etnografo della storia, qualcosa di meno di Bruce Chatwin e qualcosa di più di un moderno inviato speciale. Nel suo Itinerarium, cioè nel Viaggio in Mongolia, puntuale resoconto redatto quasi in forma diaristica e ora proposto in una curatissima edizione di Paolo Chiesa dalla Fondazione Lorenzo Valla/Arnoldo Mondadori Editore (pagg. 530, euro 30), il Nostro snobba le strampalate leggende che prima e dopo di lui (pensiamo per esempio a Giovanni di Mandeville e a Odorico da Pordenone) altri hanno riportato per vere e diffuso, si attiene alla nuda cronaca di ciò che ha visto e fatto, indulge raramente in giudizi morali nei confronti di una società rudimentale finché si vuole, se paragonata a quella contemporanea di Firenze o Parigi, ma in costante evoluzione e, soprattutto, multietnica. Nei possedimenti tartari (altrimenti chiamati moal) del XIII secolo, sotto il pugno di ferro dei vari Batu, Sartach e Mangu, abitano prigionieri tedeschi e predicatori cattolici provenienti da varie nazioni, delegazioni di sultani indiani, comunità saracene, avventurieri persiani, fuorusciti russi, deportati cinesi, sacerdoti nestoriani e persino due orafi francesi... Per molti, insomma, la Mongolia medievale era qualcosa di simile a ciò che sarà l’America dell’Ottocento e del Novecento per milioni di emigranti: se non una terra promessa, almeno una via di fuga e/o un’opportunità di riscatto.
Ci sono i ricchi e i poveri; ci si ubriaca e si tende a fregare il prossimo; i capi militari e politici giocano a fare la voce grossa nei confronti dei lontanissimi potenziali antagonisti su quello che noi chiameremmo «scacchiere internazionale»; le donne stanno in disparte ma orientano le scelte dei loro uomini. Più o meno, le stesse cose che accadevano, e accadono, nell’Occidente civilizzato. L’unica vera differenza era che, invece dell’ira di un solo Dio, si temevano quelle, varie ed eventuali, di più divinità, come sperimenta di persona Guglielmo alle prese con gli idolatri nella vita di tutti i giorni e in un’interessante disputa teologica. A capo della quale Mangu, con il buonsenso basico dei semplici, dice a Guglielmo: «A voi dunque dio diede le Scritture, ma voi non le rispettate. A noi invece ha dato gli indovini, e noi facciamo quello che essi ci dicono, e viviamo in pace».
Inutile dire, quindi, che né Sartach né nessun altro pezzo grosso fra i mongoli (il povero francescano totalizza la miseria di sei battesimi) opta per la conversione.

Ma questo probabilmente lo scaltro re Luigi l’aveva messo in preventivo. L’unico a esserne deluso è un frate come tanti che aveva gettato il cuore oltre l’ostacolo e se lo vide rispedito al mittente senza nemmeno un «grazie».

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