Montaigne, il vecchio saggio che insegna (ancora) a vivere

Se alla fine della fiera la filosofia non è che il genere letterario più vasto e ospitale, più involontariamente popolare e trasformista, insomma, se la filosofia è il capocomico buono per tutto ciò che sta fra Euripide e il vaudeville, quale maschera più gentile di Michel Eyquem de Montaigne può guidarci al nostro posto, illuminandoci il breve cammino che conduce all’autocoscienza con la torcia guizzante di basiche, condivise idee? Siediti qui e leggi: lo spettacolo sono io, sei tu, pare sussurrare nei Saggi al pubblico che ha accolto nel suo privato. «Perché era lui; perché ero io» commenteremo, prendendo a prestito con diritto di riscatto la frase alchemica e nostalgica che egli pose, in cuor suo, sulla lapide dell’amico étienne de la Boétie.
Quel «filosofo non premeditato e fortuito», come si definì, rientra nella categoria dei cattedratici da salotto e da simposio, socratici e presocratici, ellenisti ed ellenizzanti, ai quali la punta di vanità in loro accesa dai discepoli che salgono in piedi sui banchi e, la mano sul cuore, declamano «capitano, mio capitano» non scalfisce l’understatement franzosamente blasè. Pensatore asistematico, stoico, epicureo e scettico, odiato dal ragionier Cartesio e dal geometra Pascal, ammirato dal «sinceramente democratico» ante litteram Rousseau e dal leader della Francia dei Valori, Voltaire, poi dai libertini-liberali-liberisti e maneggioni, dai romantici arrabbiati e persino dai decostruzionisti, Montaigne non merita la corte di questa raffazzonata compagnia di giro, di questa banda degli onesti. Per una passeggiata nei boschi, a piedi o a cavallo, preferirebbe l’apollo-dionisiaca compagnia dello spostato Nietzsche, suo fervente ammiratore, e del burbero educatore Schopenhauer. E magari, passando al versante femminile, quello della sua Lou Salomè, cioè Marie le Jars de Gournay, di fatto esecutrice testamentaria dei saggi Saggi. A quest’ultima affine per appartenenza di sesso e dunque per il rigoroso orgoglio uterino, Sarah Bakewell (la quale, come l’altra, conobbe per caso cotanto padre-amante) ha dedicato a Montaigne un’appassionata biografia: Montaigne. L’arte di vivere (Campo dei Fiori, pagg. 448, euro 19, traduzione di Thomas Fazi).
Dal marmocchio che a sei anni parla soltanto latino (il francese fu la sua seconda lingua, ritenuta transitoria, volatile, dunque adatta a tratteggiarne il disordinato autoritratto) fino alla celebrità degna di una morte in stile-Socrate, pur senza i galli da dedicare a Esculapio, c’è tutto dei suoi 59 anni (1533-92). La signora Bakewell, essendo donna, quindi dotata del senso pratico ignoto agli uomini, piega al proprio volere sia il piacere sia il dolore che prova nel ripercorrere il tragitto, spesso misconosciuto o oltraggiato, del Nostro. Guarda con occhio benevolo e un po’ complice, da femmina, alla più che presunta gaytudine del rapporto con Étienne. Non si formalizza troppo sul fideismo di maniera sposato per quieto vivere nei tempi per nulla quieti delle guerre di religione. Abbassa l’intensità dei riflettori sul laissez faire fatalista e democristiano del magistrato prima, fra i 24 e i 37 anni, e del sindaco poi, dall’81 all’85. Approva le umanissime e codarde fughe di fronte all’incedere minaccioso della peste. Sorvola sulle accessorie donne di casa: madre, moglie e figlia. Prendendolo tutto intero così com’è, obbedendo a quella particolare e spesso camuffata forma di amore che chiamiamo stima, la Bakewell ci regala l’ircocervo generato dall’incrocio incestuoso fra il Montaigne storico e il Montaigne “suo” e soltanto “suo”, ben sapendo che soltanto così può renderlo anche “nostro”.
Nostra, di personaggi e comparse dei secoli XX e XXI, è l’apologia della mediocrità e del farci gli affari nostri, senza pestare troppo i calli degli altri, impegnati a fare la stessa cosa. Nostro è l’essere «al di fuori e in evidenza», senza la privacy di una telefonata né tantomeno di un foro interiore. Nostro l’«arrière boutique», il «retrobottega», retropensiero del pregiudizio e del gusto. Nostro il sottile gioco di «onorare di più quelli che onoriamo di meno», l’ortolano più del capufficio, il giullare più del re. Perché in fondo quale fu l’invenzione montaigneana? Lasciarsi vivere e prenderne buona nota, nella torre non d’avorio della sua casa-casato, fra visitatori d’ogni risma, soldati mercenari inclusi, e pallose incombenze quotidiane. La limitrofa Bordeaux di cui fu primo cittadino, la meno vicina (in tutti i sensi) Parigi, epicentro della politica con annesse trame culminate nella «guerra dei tre Enrichi» (a margine della quale assaggiò per qualche ora la Bastiglia), i viaggi per l’Europa, soprattutto in Italia, del biennio ’80 - ’81 furono per il signore di Montaigne, mediocre viticoltore, dei diversivi assaporati o subìti fra una colica renale e l’altra.
Montaigne si specchia nelle pagine dei suoi Saggi e specchiandosi vede anche (nonostante 178 anni vissuti all’indice, dal 1676 al 1854) noi che lo osserviamo lavorare.

Concentrare l’attenzione sul suo dito che indica la luna non è, diversamente dal solito, segno di ottusità. Male che vada serve a ricordarci che «anche sul più alto trono del mondo non siamo seduti che sul nostro culo».

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