Morto Giudici, il poeta che cantò i pompieri dell’11 settembre

«F a come se potessi / Vedermi - qui all’estrema / Abitazione della vita / Seduto solla soglia tra la stanza / Dove già m’illudevo / Di perseguire un’opera di suoni / E segni al frenetico bruciarsi/ Di una sigaretta clandestina:/ No - ma composto un numero udirti l’ultima volta/ Se mai tu non riuscissi a recitarmi / Un pizzico di nostalgia / Almeno a distanza condita / Con sale d’ironia / Deposta benché la speranza». È la poesia Di un come se, del 1999, una delle ultime scritte da Giovanni Giudici e pubblicata nel libro, bello e raro, Da una soglia infinita dalle Grafiche Fioroni, a cura di Evelina De Signoribus. È da allora, da più di dieci anni, che taceva quasi del tutto la voce di Giovanni Giudici, uno dei maggiori poeti italiani del secondo Novecento, spentasi ieri notte nell’ospedale di La Spezia. Malato da lungo tempo, Giudici, che era nato nel 1924 a Le Grazie (La Spezia), avrebbe compiuto 87 anni il 26 giugno.
Emigrato dalla Liguria bambino, vi era tornato nei primi anni ’90, dopo avere vissuto lungamente a Torino, Roma e a Milano. Fra queste grandi città c’è stata però l’importante parentesi di Ivrea, l’utopica città dell’ingegner Olivetti, che lo aveva assunto nel gennaio 1956 per le Edizioni di Comunità, assieme al fior fiore degli intellettuali del tempo. Ma la mentalità e lo stile di quell’establishment culturale, «neoilluministico e laicista», vanno un po’ stretti al «cattolico» Giudici, che nel 1958 si trasferisce a Torino e l’anno dopo a Milano. Frutto di quell’esperienza è la plaquette L’intelligenza col nemico. A Milano Giudici lavora come giornalista, collaborando alle più importanti riviste e quotidiani italiani.
Nel 1965 esce da Mondadori La vita in versi, il suo primo vero libro, che raccoglie le poesie scritte dal ’57 al ’65 e che lo consacra all’attenzione di critici e lettori. «Metti in versi la vita, trascrivi/ fedelmente, senza tacere/ particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.// Ma non dimenticare che vedere non è/ sapere, né potere, bensì ridicolo/ un altro voler essere che te», dice la poesia eponima di questa raccolta, forse il suo capolavoro, in cui compaiono i tratti salienti del suo modo di fare poesia: il «travestimento», l’ironia e il paradosso applicati ai frustranti rituali quotidiani, fino alla celebrazione della «bigia croce impiegatizia», e in cui coesistono, secondo il poeta, il «sublime, l’infame, l’illustre». Lontano da scuole e amici, sconfortato da una solitudine intellettuale, Giudici mette in versi, come nota Daniele Piccini, non tanto la vita civile, l’esperienza lavorativa e servile, la frustrazione e il romanzo sociale, ma la vita senza aggettivi. Nel 2001 celebrò, in Dedicato ai pompieri di New York, i vigili del fuoco che morirono in seguito all’attentato alle Twin Towers: «Bambini in trecento son morti / Bambini che prima di ieri / Erano giovani e forti / A loro nei vostri pensieri / Tenetevi stretti un minuto / Quando giocate ai pompieri / Il vostro gentile saluto».
Difficile riassumere brevemente un’opera e una vita tanto ricche e intense. Vanno almeno citate le raccolte Autobiologia, Salutz, Il male dei creditori, Quanto spera di campare Giovanni. Ma, maestro nella prosodia, Giudici esercita la sua pronuncia e il suo verso soprattutto su misure straniere, traducendo poeti come Sylvia Plath, Shakespeare (tra le più belle esistenti le sue versioni di 14 sonetti del Bardo), Puskin e altri poeti americani e céchi.

Saggista di grande acume, è anche narratore ironico e surreale (Frau Doktor), e riscrive per il teatro il Paradiso di Dante. I versi della vita è il titolo del Meridiano Mondadori, curato da Rodolfo Zucco e introdotto da Carlo Ossola, che raccoglie tutta la poesia di Giudici.

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