Morto Niazov, il comunista che si fece faraone

Ogni suo capriccio diventava legge. L’ultimo è stato rinfrescare il deserto con una foresta di cipressi di 1.000 kmq. Famosa la riforma del calendario in cui diede ai mesi i nomi dei familiari

Il nome di Saparmurat Niazov, presidente del Turkmenistan, non dirà molto alla stragrande maggioranza dei lettori. Che fosse meno noto del presidente degli Stati Uniti, del resto, è una cosa che aveva sempre dolorosamente sorpreso anche lui, pur se con l’andare delle stagioni ci si era giocoforza assuefatto. «Così va il mondo», diceva sconsolato e stranito, misurando a grandi passi i saloni della sua magione da pascià, almanaccando intorno alla prossima, immane fesseria che gli frullava nel testone: quella che, ne era convinto, gli avrebbe finalmente dato fama e celebrità in ogni pizzo del globo terracqueo, da Lisbona all’isola di Tonga.
Quando si è detto che Niazov era presidente del Turkmenistan (da 21 anni) non si è detto ancora tutto. Giacché dell’ex Repubblica sovietica piantata nell’Asia centrale, flottante su un enorme lago di gas naturale, Saparmurat non era solo il presidente. Ne era il padrone.
Ieri, ecco la notizia, sua eccellenza è incredibilmente morto. A 66 anni. Ma non è la giovane età che stupisce e addolora. È proprio il fatto in sé - che anche lui fosse mortale, cioè - che deve averlo lasciato stupefatto, un attimo prima di spirare.
Niazov era convinto, raccontano, che in una sua vita precedente era stato un faraone della diciottesima dinastia. Non era, come si vedrà, una convinzione campata per aria, come verrebbe da dire di un megalomane. Ma neppure a un Tutmosis IV, che pure aveva Iside e Osiride dalla sua, sarebbe mai venuto in mente di farsi erigere una statua capace di girarsi su se stessa seguendo il trascorrere del sole nel cielo. Saparmurat I ce l’aveva.
Qualche tempo addietro, stanco del clima siccitoso delle steppe semidesertiche che circondano la capitale Ashgabat, aveva ordinato che si piantasse una foresta di cipressi per mitigarne l’arsura. «E quanto la vuole grande, eminenza, la foresta?», domandarono in un bisbiglio ingegneri, agronomi e forestali riuniti a consulto. E lui: «Mah, vogliamo fare un migliaio di chilometri quadrati?». I lavori, a quanto pare, sono già in corso. «Foresta millenaria», si chiamerà. Mitigare l’arsura della regione turkmena era una specie di chiodo fisso, per il presidente Niazov. Nel 2001 avviò i lavori per la creazione di un colossale lago artificiale in pieno deserto del Karakum. E quattro anni dopo, convinto che il clima si poteva piegare ai suoi voleri, pose la prima pietra, sempre in pieno deserto, di uno zoo in grado di ospitare 300 specie di animali, pinguini compresi.
Al «Turkmenbashi», cioè «Padre e guida dei turkmeni», appellativo che Saparmurat I preferiva a quello un po’ scialbo di presidente, non si poteva dire di no. Lui sfornava spaventose cazzate a getto continuo, e il Parlamento, come un sol uomo, ratificava.
Nulla dava a sua eccellenza più fastidio di certo becero culto della personalità cui si sono lasciati andare altri capi di Stato, in giro per il mondo. Tipo un Saddam Hussein. Ma quando uno è letteralmente adorato dal popolo, che pretende di vedere ogni giorno l’immagine salvifica del Padre eccetera su banconote, bottiglie di vodka e dopobarba, come fare a impedirgli di battezzare col nome di «Turkmenbashi» scuole e ospedali, aeroporti e stazioni ferroviarie, ponti e pizzerie? E qualche statua, in giro per il Paese? Come si fa a opporsi alla volontà del popolo, quando il popolo chiede di essere protetto, a ogni quadrivio, dallo sguardo marmoreo del «Padre e guida dei turkmeni»? Quella che gira seguendo il sole, alta 12 metri e interamente rivestita d’oro, Niazov se l’era fatta piazzare a due passi dal palazzo presidenziale. E siccome anche in Turkmenistan qualche mascalzone che rema contro c’è, si è insinuato che il metallo veniva da quello fatto «risparmiare» agli odontotecnici, dopo che una grida presidenziale aveva ordinato a questi ultimi di non usare più oro nei loro ponti e nelle capsule da essi confezionate.
Il calendario era un’altra delle sue fissazioni. Via i nomi dei mesi tradizionali. Al loro posto, ecco quelli di eroi, poeti e avvenimenti capitali nella storia della nazione. Ecco dunque ribattezzato il primo mese dell’anno col nome dell’eroe per antonomasia, «Turkmenbashi», aprile col nome di sua madre Gurbansoltan (madre di eroe, va da sé) e settembre Ruhnama, titolo della sua più grande fatica letteraria: una summa del suo pensiero che ricorda un po’ il «libretto rosso» di un altro compianto padre della patria, Mao Tse Tung. Padrone di immense riserve di petrolio e gas naturale (il Turkmenistan è il quinto produttore mondiale di gas) Saparmurat I era fatto un po’ a modo suo.

Aveva vietato l’uso della musica registrata, del balletto e dei capelli lunghi per gli uomini. In compenso, ai suoi sudditi garantiva acqua, gas, luce, istruzione, assistenza sanitaria gratis, benzina a prezzi stracciati e biglietti aerei per voli interni a 2 euro. Credete, uno così sarà rimpianto.

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