Moschee mobili per i tifosi: è la religione del pallone

«Ci sono fini più nobili di una partita di calcio, ma se ci credi, rivolgiti pure a Dio o alla Madonna», disse un anziano prete di Bologna, che ha passato la vita ad aiutare poveri, vecchi e prostitute, al tempo dell’acquasantiera di Trapattoni. Erano i giorni del Mondiale nippo-coreano violentato dall’arbitro Moreno. Ma non fu un caso isolato. I nazionali brasiliani si riunirono in cerchio per pregare dopo aver vinto la coppa proprio nel 2002 sulla Germania. E la Fifa, rendendosi conto che questi fenomeni si ripetevano sempre più spesso sui campi di calcio, ha vietato le t-shirt con slogan religiosi oltre che politici. Inizialmente con modesti risultati. Per anni Kakà, legato alla chiesa evangelica pentacostale, ha festeggiato i gol mostrando la maglietta con scritto «I belong to Jesus», cioè «Io appartengo a Gesù». Un atto di grande fede. E non venite a dire che si tratta di gesti profani o irrituali solo perché hanno luogo fuori dalle mura d’una chiesa. L’agorà è il mondo. E il mondo non ha confini.
In questa edizione il senso di appartenenza a Dio s’è manifestato in più occasioni, indipendentemente dalla religione, dimostrando che il calcio ha un’anima, non vive soltanto di ingaggi milionari. Maradona si scarnifica le nocche della mano con il rosario. Per il ct del Paraguay, Martino, la qualificazione ai quarti è dovuta alla fede in Dio: «Altrimenti non avremmo battuto il Giappone ai rigori». Padre Kingson, leader religioso della nazionale ghanese, è andato ancora più in là: «Dio mi ha detto che arriveremo alle semifinali». Alias: «Batteremo l’Uruguay». Sotto la sua guida i giocatori pregano prima, durante e dopo la partita. Meglio se riservatamente. Ne sa qualcosa un cameraman, cacciato a forza, che voleva riprendere la scena dopo l’approdo ai quarti. L’interiorità non può andare in mondovisione. E poca conta che nel gruppo ci siano cristiani e musulmani: pregano tutti insieme, ciascuno rivolgendosi al proprio Dio. Questa sì che è integrazione.
Ma c’è dell’altro. Il regime saudita s’è inventato le moschee mobili per venire incontro ai sudditi che si trovano nei bar a vedere le partite e che, al momento della preghiera, spengono i televisori, srotolano i tappeti e appunto si mettono a pregare.

Con la speranza di non perdere neppure un gol. È accaduto a Riad. Ne prenda nota il Vaticano che non fa molto per avvicinare il suo popolo. O i fedeli vanno in Chiesa o restano fuori dal gregge. E qui le cose del calcio non c’entrano.

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