Mucha, illustratore patriota nel segno della Bernhardt

Avrebbe voluto fare il musicista o l’attore. O il pittore, almeno. Divenne decoratore e disegnatore, Alphonse Mucha (1860-1939) e lavorò per le riviste e il teatro, ma ebbe in sorte la fortuna d’inventare un’ideale di bellezza femminile unico e irraggiungibile, ancora oggi riconoscibile come suo. Giunto a Parigi alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento dalla nativa Moravia, Mucha si legò alla cultura simbolista e letteraria, ai sodalizi esoterici ma, soprattutto, incontrò Sarah Bernhardt. È lei la musa che, sinuosa e sottile, seducente e immateriale, mondanissima e inarrivabile, compare e ricompare nelle affiches che, al passaggio del secolo, lo resero un artista di fama europea.
Era il 1894 quando aveva disegnato il primo poster per Gismonda, opera teatrale interpretata dalla famosissima attrice francese di origine ebrea che divenne la sua principale committente. La Bernhardt vi compare a figura intera, in un ritratto dai colori sfumati che appariva sulle strade e, per la prima volta nella storia delle arti, veniva moltiplicato in migliaia di esemplari.
Da allora la Bernhardt e Mucha vissero un sodalizio durevole, che si tradusse nella produzione di affiches, gioielli, acconciature e scenografie. Sta nascendo l’art nouveau e la pubblicità, ma la grandezza di Mucha non è solo in questo, che pure fu un primato. Orgoglioso delle sue origini ungheresi, Mucha era un patriota, un nazionalista, un uomo che legò il suo successo al riscatto del suo Paese, l’Ungheria. Il figlio, primo biografo ufficiale, lo spiegò: «non era per se stesso che desiderava il successo, ma per la sua patria».
Eleganza e patriottismo, mondanità e rivendicazione delle proprie radici: Mucha appare, in questo scadere di secolo che porta con sé tutte le contraddizioni dell’appena trascorso Ottocento e le inquietudini dell’incipiente Novecento, l’idealità di un artista antico e la passione di un uomo moderno. Dipinge femmine aurate di fiori, strette dentro il contorno sottile della grafica estenuata dal simbolismo di moda, ma pensa al riscatto della sua Ungheria, da tre secoli dominata dagli Asburgo.
«Alphonse Mucha: modernista e visionario» è il titolo della prima mostra dedicata all’artista in Italia, in occasione del centocinquantesimo anniversario della nascita (Forte di Bard, Valle d’Aosta, fino al 21 novembre 2010, a cura di Tomoko Sato). Un percorso ricco di oltre duecento opere divise per temi racconta l’avventura di questo bravissimo disegnatore, che sempre agognò l’approdo alla pittura. L’olio su tela che rappresenta la Slavia, ossia il simbolo dei popoli slavi, boemi, moravi e slovacchi, siede in un trono cerchiato di fiori come una divinità antica. Era nato come affiche di una compagnia di assicurazioni di Praga e fu l’inizio della cosiddetta Epica slava, un ciclo di venti tele dedicate allo sviluppo della civiltà del suo popolo. Divenne il simbolo di un sogno infranto, ancora una volta, dalla storia.

Perché la «Slavia», in quanto Stato indipendente, durò soltanto vent’anni, e poi finì di nuovo nel 1939. Ma Mucha sembrava saperlo: «il progresso dell’umanità procede lungo un cammino tortuoso, sale e scende...». «Ma a lungo termine - dopotutto - sale», diceva.

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