Nanni spegne il sol dell'avvenire e così riaccende il suo cinema

Dopo il deludente "Tre piani", Moretti torna a fare se stesso. Lo strappo con il Pci e la ritrovata voglia di raccontarsi

Nanni spegne il sol dell'avvenire e così riaccende il suo cinema

Meglio tardi che mai. Nanni Moretti fa il suo girotondo intorno al Partito Comunista Italiano, «perché non è vero - dice - che la storia non si fa con i se», riscrivendone le vicende nel film immaginato all'interno del suo nuovo film Il sol dell'avvenire, in uscita domani nelle nostre sale prima di andare in concorso al Festival di Cannes. È un espediente, quello del film nel film, che Moretti ha usato spesso, da Aprile a Il caimano a Mia madre, e che qui gli consente di rileggere, letteralmente, l'invasione sovietica che represse nel sangue la primavera di Praga del 1956.

Perché il suo personaggio, il regista Giovanni, strappa, nella ricostruita sezione Antonio Gramsci del Pci del romano Quarticciolo, il poster con Stalin - «è un dittatore e io non ce lo voglio nel mio film» - davanti al segretario del circolo, interpretato da Silvio Orlando, che si troverà a dover decidere da quale parte stare quando arriverà nel quartiere il circo ungherese Budavari. E poi perché cambia i titoli d'epoca terribili («Stroncare la controrivoluzione ungherese») del quotidiano organo del Pci, l'Unità, peraltro in procinto di tornare in edicola diretta da Piero Sansonetti. E certo, quando vediamo le immagini di repertorio con i carri armati a Budapest, il pensiero corre subito all'Ucraina. Anche se, sottolinea il regista, «la prima sceneggiatura è stata chiusa nel giugno 2021».

Moretti, dopo il passo falso del suo ultimo Tre piani, per la prima volta tratto da un libro, torna a fare il Moretti utilizzando l'alter ego del personaggio di Giovanni che ha sostituito il famoso Michele Apicella, arrivato al capolinea in Palombella rossa del 1989. Il sol dell'avvenire squaderna i suoi tre piani narrativi con Giovanni, un regista sposato con Paola, la sua produttrice (Margherita Buy), che sta girando un film ambientato nel 1956, ma al contempo sta scrivendo un film da Il nuotatore di Cheever e immagina un film d'amore con tante canzoni italiane. Ci sono tutte le fisime, i tic, le intolleranze (odia le calzature sabot) che lo hanno reso famoso e amato dal suo pubblico, che speriamo ci sia ancora, e a cui si rivolge direttamente inserendo alcuni cameo come un nuovo pantheon di sinistra, da Renzo Piano a Chiara Valerio a Corrado Augias, quando un tempo c'erano, per dire, Mughini e Abruzzese.

C'è però un'aria di tolleranza nell'intolleranza molto diversa dalla forza quasi violenta dei suoi primi film. Nanni Moretti ad agosto compirà 70 anni e osserva placido il mondo dal suo oblò, consapevole che tutto è cambiato: «Tutto è diverso ma io ho sempre reagito contro l'onda. A metà anni '80 c'erano pochi film italiani radicati sul territorio, si facevano film con cast internazionali che, per piacere a tutti, non piacevano a nessuno. Così ho creato la mia casa di produzione. Poi, visto che la gente non andava al cinema, ho aperto una sala. Anche ora, in un momento di difficoltà delle sale, ho fatto finta di niente pensando a un film per gli spettatori al cinema», dice il regista proprio dal suo cinema Nuovo Sacher.

E infatti, sostenuto da Rai Cinema che lo produce con la sua Sacher Film e Fandango, Il sol dell'avvenire uscirà addirittura in 500 cinema: «È un discreto numero perché, insomma, c'è molta attesa». Un contraltare del tormentone dei 190 Paesi in cui si vede Netflix, presa in giro nella scena in cui lui va a colloquio con i dirigenti della piattaforma che gli criticano il copione perché manca il «what the fuck», ossia la trovata spiazzante inserita al momento giusto: «Rimango dell'idea - aggiunge Moretti - che i film si devono fare per il cinema, mentre per le piattaforme vanno bene le serie».

Il sol dell'avvenire è un film corale, in cui i personaggi femminili sono scritti, dal regista con le sceneggiatrici Francesca Marciano, Federica Pontremoli e Valia Santella, con grazia vera, come quello, tenero, interpretato da Barbora Bobulova, militante della sezione del Pci. Si ride, spesso, e ci si emoziona quando vengono messi in scena i rapporti privati del personaggio del regista. Come la crisi di coppia, ma anche lo sguardo amorevole verso la figlia (la bravissima Valentina Romani della serie Mare fuori) che si innamora dell'ottantenne ambasciatore polacco interpretato dal mitologico attore (e regista) Jerzy Stuhr. Ancora più commovente quando il regista dirige la storia d'amore di due ragazzi, interpretati da Blu Yoshimi e Michele Eburnea, nel film immaginato con le canzoni italiane.

Il film si chiude con una marcia trionfale sui Fori Imperiali con tanto di elefanti del circo che avrebbe fatto invidia a Fellini, in cui

compaiono tutti gli attori del suo cinema. Una sorta di Quarto stato morettiano (il cartello finale inneggia all'utopia comunista «che ci ha reso tanto felici») in cui curiosamente mancano solo Laura Morante e Riccardo Scamarcio.

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