A ventotto anni passai alcuno mesi al Cairo. Mi ospitava un convento francescano della Custodia di Terra Santa (un ordine nato nel 1219 con l'incontro, a Damietta, fra S. Francesco con il sultano Malik al-Khamil). Il convento si trovava in un quartiere popolare della metropoli, Bulaq, e fin dai primi giorni della mia permanenza fui coinvolto nella attività dei frati, che riguardavano in gran parte l'assistenza alle famiglie più povere. Sono entrato in diverse case musulmane e in tutte, nessuna esclusa, era presente un'immagine della Madonna con il Bambino e, sotto, un lumino acceso. Domandai a una donna perché nelle case musulmane fosse presente un'immagine cristiana. La donna rispose con totale semplicità: «Perché lei è la madre».
Mi tornano alla mente queste parole, che hanno segnato per sempre il mio modo di intendere il rapporto tra le diverse religioni, mentre leggo l'ultimo libro di Vittorio Sgarbi, Natività (La Nave di Teseo, pagg. 370, euro 24), che esce oggi in libreria.
Natività è, come tanti altri libri di Sgarbi, una raccolta ragionata di schede, che a volte sembrano tratte da conversazioni occasionali (visite a chiese e musei, interviste, testi raccolti ad hoc), che l'autore - questa almeno è la mia impressione - ha volutamente lasciato allo stato grezzo, come a sottolineare la necessità di coniugare l'erudizione con una fruizione quasi selvaggia, anti-intellettualistica, dell'arte. Come un valentissimo zoologo capace però di maneggiare familiarmente tigri e coccodrilli, Sgarbi attraverso la velocità stessa, la forza talora sbrigativa delle sue osservazioni, ci introduce non soltanto a una visione storica (che pure è ben presente) ma a quella che Giovanni Testori chiamava «la realtà della pittura», ossia quel versante dell'arte che il sistema-cultura cerca, normalmente, di evitare. Ma Natività gode di un privilegio speciale rispetto ad altri libri di Sgarbi: quello di coniugare la «realtà della pittura» con il soggetto che, forse più di qualunque altro, ha determinato nei secoli in senso stesso della parola «realtà». Ossia, la maternità di Maria, la Madonna col Bambino, l'annuncio che Dio - l'autore di tutta la realtà, delle galassie come delle mie sinapsi mentali, dell'azzurro del cielo e dei miei occhi che lo vedono - è apparso sulla Terra con le fattezze di un fragile bambino che chiede e dà non paura ma tenerezza e misericordia, che sono le due parole a noi comprensibili dell'incomprensibile mistero di Dio. Tenerezza (la Natività) e dolore (la Crocefissione): su queste realtà, non mitologie, la pittura cristiana e poi cristiano-occidentale si è formata, ha imparato a usare l'oro e poi il blu per raccontare la maestà del Cielo e il suo dolorante vuoto, ha tratto il rosso dei tramonti o dei panneggi delle dame dal rosso del sangue che sgorga dal costato trafitto di Gesù. Su dolore e tenerezza - non concetti ma realtà fisica, dolore eterno (Maria perdonerà mai a Dio l'uccisione del proprio figlio?) si è aperta per la storia dell'arte una porta nuova, una nuova idea di «arte» e di «pittura». I simboli - senza i quali non esiste l'arte - sono scesi per strada, hanno incontrato la materia caduca, povera, eterna ma anche passeggera di cui è fatto il mistero, e il sacro ha incontrato e fatto i conti con il pensiero, con le mentalità, con le diverse fasi storiche. Come dimostra quel capolavoro di arte sacra che è L'origine del mondo di Gustave Courbet, giustamente inserito nella parte iniziale del libro (quella dedicata a Duccio, a Cimabue, a Giotto) non come provocazione ma per chiarire che, senza la nascita di Cristo, non esisterebbero né la Maestà di Duccio né - allo stesso titolo - il dipinto in apparenza dissacratore di Courbet. Nel travaglio dell'arte al contatto con la storia, le tecniche, le correnti di pensiero, i maestri di riferimento (per esempio S. Francesco per Giotto ma anche per Piero) il mistero dell'Incarnazione centuplica la sua teologia: implicandosi con la storia umana si implica con l'umanità pensante e operante di Bellini, Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Lotto, Dürer e tanti altri, e implicandosi si approfondisce, rivela di sé cose sempre nuove - e questa è la differenza tra un Dio vivo e un Dio morto o mai esistito.
La grande erudizione di Sgarbi, che si esalta nei saggi più complessi - per esempio quelli dedicati a Piero, a Botticelli, a Raffaello, a Bellini - rivela sempre la concretezza di chi conosce il travaglio pratico, la difficoltà tecnica. Dal mistero dell'Incarnazione sorgono non solo gli affreschi di Assisi o della Sistina, ma le inconcepibili mani dell'Annunciata di Antonello o della Vergine delle Rocce di Leonardo. Chi più di un grande pittore sa che cos'è veramente una mano? Ma per farci capire cos'è una mano, i pittori hanno avuto bisogno delle mani di Maria, delle manine paffute del Bambino. La bellezza di questo libro - un libro veloce com'è veloce Sgarbi - sta nella chiarezza con cui l'autore tratta questo assunto centrale, che ho cercato di illustrare. Nella quarta di copertina, è riportata una sua frase che dice: «Cosa significa essere madre? Solo l'arte, forse, lo ha saputo raccontare». Con una piccola aggiunta: ci voleva quella madre, se non altro perché l'arte non è materia da intellettuali e se ne frega dei concetti come maternità, affettività, emotività eccetera. All'arte interessano i corpi, i fatti, il tempo e lo spazio, e dai corpi e da tutto ciò che non si può delocalizzare verrà la salvezza.Vorrei concludere con una nota personale su Vittorio Sgarbi. Nella mia libreria ci sono decine di suoi libri, tutti sull'arte. Libri cosiddetti divulgativi, scritti per spiegare l'arte alla gente, come faceva tanti anni fa al Costanzo Show. Mi domando chi ha contribuito di più ad amare l'arte, lui oppure qualcuno dei suoi tanti, specializzatissimi detrattori. Certe sue esternazioni possono non piacere (molte sono dispiaciute anche al sottoscritto), però a differenza di tanti non è un furbetto, il consenso e il dissenso che riceve sono il frutto di quello che pensa, lui non strizza l'occhio a nessuno, se deve blandire qualcuno lo fa alla luce del sole.
La sola cosa sensata che io abbia mai sentito da un suo detrattore la disse Aldo Busi tanti anni fa, quando lo accusò di non scrivere una grande opera perché non aveva nessun mondo interiore. Non sono d'accordo: questi suoi libri/non libri, che spesso appaiono quasi sbrigativi, testimoniano al contrario la presenza di un mondo enorme, di una materia incandescente alla quale una specie di horror vacui, che si traduce in rinvii, nuove cariche, consulenze ecc. non permette - per ora - di uscire alla luce. Però succederà, l'argine esiste per essere rotto. Ma non mi aspetto tanto l'uscita, un bel giorno, di una Storia dell'Arte italiana in tre grandi volumi a opera del prof.
Vittorio Sgarbi, quanto un grande romanzo-saggio dalla prosa innovativa, un caotico e irriverente e innamorato Ulysses e al tempo stesso un confiteor orante e blasfemo in cui la stessa vertigine che Sgarbi lascia intravedere in queste sue schede, in questi testi occasionali o quasi, si liberi e prenda la sua piena consistenza in una lingua nuova. Perché, alla fine, è tutta una questione di lingua.
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