A Trieste e Monfalcone quest'anno si è sollevato il problema del burkini e delle donne islamiche che, per rispetto ai precetti religiosi, entrano in mare completamente vestite. Nelle due città del Friuli-Venezia Giulia questo sta causando non pochi problemi ai sindaci, alle prese con proteste e con rimostranze da parte dei cittadini, che pretendono il rispetto del decoro e dell'igiene pubblica. Il sindaco di Monfalcone, che già alcune settimane fa ha inviato una lettera aperta alla comunità islamica, chiedendo loro di adeguarsi e di osservare le regole di convivenza comune per favorire l'integrazione, ha annunciato che entro ottobre sarà pronto un regolamento comunale in tal senso per normare una situazione che si è fatta tesa. A Trieste, invece, per il momento il sindaco non ha annunciato alcuna iniziativa in tal senso ma la situazione in città non è meno tesa dopo che al Pedocin, storico bagno cittadino che dal 1903 prevede parti separate tra donne e uomini, si è verificato uno sconto tra un gruppo di donne italiane e uno musulmano, perché queste ultime volevano entrare in acqua vestite.
E così, mentre nelle città si cerca di lavorare nel senso dell'integrazione, che vuol dire anche rispetto della comunità locale, l'Ics invita le donne musulmane coinvolte nei fatti di Trieste e "oggetto delle minacce a rivolgersi" ai loro uffici "per un ascolto e un confronto finalizzato alla loro tutela" invitando "le cittadine coraggiose che sono state testimoni delle minacce di rendersi disponibili come testimoni". Ics ha sottolineato che "non è possibile imporre alcuna limitazione all'abbigliamento per motivi religiosi in base all'art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo", segnalando che "l'utilizzo di abiti durante il bagno in mare non comporta alcun pericolo né per la sicurezza, né per la salute pubblica e costituisce dunque espressione di una libertà inviolabile tutelata dall'ordinamento giuridico". In realtà non è esattamente così e soprattutto a Trieste, dove i fatti si sono svolti all'interno di un bagno privato, è possibile che venga imposto un dress-code.
In base a quanto indicato nel sito internet dell'Ics, questa è un’associazione che svolge "un’opera di tutela a favore di richiedenti asilo, rifugiati e persone titolari di protezione sussidiaria o umanitaria presenti a Trieste e in Friuli Venezia Giulia". Dal 1998, l'associazione ha avuto dal Comune di Trieste la gestione di una struttura di accoglienza provvisoria presso un ricreatorio a fronte dei crescenti arrivi a Trieste dei kosovari. Come spiegato nel sito dell'associazione, i suoi progetti vengono interamente finanziati e questo permette loro di "affrontare le emergenze, accogliere le persone e cominciare con loro un percorso verso il futuro". Ma chiedono anche donazioni, facendo leva sul solito adagio della società escludente "che sembra non riconoscere più l’universalità dei diritti e, al contrario, teorizza forme di esclusione dai diritti sociali, culturali e politici di parte della popolazione". Per questo motivo propongono l'addebito permanente in conto, con un accredito mensile di 10, 20 o 40 euro ma sottolineano che "sono fasce indicative, contributi maggiori (ma non inferiori, ndr) sono i benvenuti". Chiedono in alternativa le donazioni libere o il 5x1000.
L'associazione, invece di cercare un dialogo con le istituzioni per capire dove nasce il problema, si propone per un muro contro muro.
Potrebbe cogliere l'occasione per aprire un canale di discussione e capire quali siano le posizioni dell'una e dell'altra parte, facendosi mediatore, invece assume di principio una posizione contraria a quella istituzionale, remando contro l'integrazione e la sensibilità della comunità locale, che ha dimostrato malessere. Ma questo malessere non merita di essere ascoltato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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