
Ilaria infilata in una valigia come Pamela Mastropietro. Gettata via nei rifiuti come Michelle Caruso, nascosta in un bosco fra le sterpaglie come Giulia Cecchettin. Uccisa pochi giorni dopo Sara Campanella. C’è un denominatore comune inquietante tra i femminicidi italiani. Una «scioltezza» nell’uccidere, un disprezzo e un’incapacità a frenare la rabbia che lasciano letteralmente esterrefatti.
Sembra che le peggiori storie di cronaca e le campagne anti violenza non servano a nulla: le donne, sempre più giovani, continuano a morire per niente sotto i colpi di ex, fidanzati, mariti, compagni. Anche loro sempre più giovani.
Dall’inizio dell’anno i femminicidi sono già più di dieci: Eliza Stefania Feru, Maria Porunbescu, Jhoanna Nataly Quintanilla Valle, Eleonora Guidi, Cinzia D'Aries, Tilde Buffoni, Sabrina Baldini Paleni, Laura Papadia.
Come è possibile un’escalation del genere? Sembra che, nonostante la prevenzione, nulla cambi. «C’è una profonda incapacità a metabolizzare rifiuti e abbandoni che trasforma la rabbia in un’emozione non controllabile da scaricare sulla vittima» spiega la criminologa e psicologa Flaminia Bolzan (nella foto).
«Per questi soggetti, la rabbia e la frustrazione divengono emozioni non controllabili e anziché essere elaborate sul piano del pensiero, vengono agite e l'oggetto sul quale 'scaricarle' letteralmente diventa la vittima». La psicologa sostiene sia sbagliato parlare di «raptus» davanti a questi casi. «A mio avviso è improprio e fuorviante - sottolinea Bolzan - specie per ciò che attiene il caso di Messina. Dobbiamo infatti tenere conto della persecutorietà dei comportamenti antecedenti del ragazzo, cosa che, a mio avviso, ha un peso enorme nella valutazione dell'excursus e dei processi mentali che poi lo hanno portato ad agire».
«Dobbiamo assolutamente portare al più presto in Parlamento nuovi strumenti - rileva la psicologa clinica Laura Todaro -, abbiamo bisogno di normative molto più severe per non arrivare al punto di dover parlare di altri delitti. E dobbiamo assolutamente puntare sulla prevenzione: ormai siamo in prevenzione terziaria, quella oltre la diagnosi. E se parliamo di prevenzione terziaria in criminologia, è la rappresentazione del fallimento del nostro intervento sociale. C’è un problema alla radice di natura socio-culturale: un odio, una forma di controllo e di possesso dell’uomo che deve avere sulla donna, e che non accetta assolutamente la parità di genere».
Ragazzi che,
prosegue Todaro, «non hanno fatto altro che cercare di assoggettare e annientare l'identità femminile di chi avevano di fronte. C’è anche una questione di ego maschile che viene ferito, di disturbo di personalità del soggetto».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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