"Dal politico sotto torchio al ruolo dell'immagine: ecco i segreti del reporter"

Alessio Lasta, giornalista di Piazzapulita e ospite della masterclass di videogiornalismo di inchiesta di Alessandro Politi, racconta del rapporto con l'imparzialità e di come un giornalista deve affrontare il potere in un’inchiesta

"Dal politico sotto torchio al ruolo dell'immagine: ecco i segreti del reporter"

Attenersi ai fatti, battere tutte le piste, ascoltare tutte le voci senza privilegiarne una, mai: sono le regole base per il giornalista d’inchiesta. Stelle polari che, però, diventano più difficili da seguire per chi si trova a rovistare nel malaffare della politica. Alessio Lasta - giornalista d’inchiesta e inviato di Piazzapulita - ci ha spiegato perché il senso del giornalismo a volte non sta nel ricorrere una fantomatica imparzialità, ma nel coraggio di farsi, all’occorrenza, “grimaldello dei cittadini” traditi dal potente di turno.

Nelle tue inchieste hai toccato temi e contesti diversi. Come scatta l’idea di scavare in una direzione piuttosto che in un’altra?

Io ho sempre avuto la fortuna di occuparmi di argomenti che mi interessavano. Di solito, propongo temi che sento vicini o su cui, grazie al rapporto con le fonti, posso avere notizie di prima mano. Quindi, prima cosa: coltivare il rapporto con le fonti. Poi, farsi guidare dagli interessi personali e trovare la propria forma del racconto.

E la tua qual è?

La mia è sempre una forma a tinte forti. In un servizio mi piace inserire dei contrasti, accostando un aspetto emozionale a uno di denuncia. Se non c’è alcun sentimento, alcuna “carnalità” anche nel modo di raccontare, non si rispetta la natura del mezzo. La televisione è pervasiva e arriva nelle case con una potenza micidiale. Ma è efficace proprio quando suscita delle emozioni forti, che, però, non devono essere fine a se stesse.

Per esempio?

Pensa al mio reportage per Piazzapulita andato in onda il 5 marzo del 2020, che ha permesso di capire qual’era realmente la situazione all’interno delle terapie intensive. Ecco, questo è un classico esempio in cui l’immagine non si ferma alla funzione iconica, che è quella di far vedere qualcosa, ma ne ha anche una esplicativa, cioè di chiarire e mettere in fila i fatti. Per questo, io dico sempre che bisogna prima pensare per immagini poi per contenuti. L’immagine non può essere un corredo, ma è la forma espressiva del mezzo televisivo e comanda.

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Questo vale in tutti i contesti?

Dai miei servizi deve uscire qualcosa che emozioni, che coinvolga, in cui il pubblico possa identificarsi ma anche qualcosa che spieghi. Emozione, coinvolgimento, identificazione e spiegazione di un fenomeno: tutti questi quattro aspetti fanno parte del mio modo di fare giornalismo. Sia quando mi occupo del Covid che degli sprechi della politica.

O quando l’anno scorso hai raccontato le prime fasi della guerra in Ucraina.

Quando sono stato a Irpin, il mio scopo era fare vedere allo spettatore cosa era veramente la guerra, da vicino. E soprattutto in quel contesto, la potenza dell’audio, del video e la forza delle immagini difficili unite all’emozione del giornalista sono un mezzo per raccontare importante, ma non devono mai sconfinare nel protagonismo. Un pezzo anemico a me non piace perché non aggiunge nulla, però l’aspetto emotivo non può soverchiare la narrazione.

Spesso ti occupi di politica. I giornalisti dovrebbero essere super partes, ma hanno comunque le proprie idee. Come si riesce ad essere imparziali?

Non ho mai creduto al giornalismo imparziale e che non si schiera. È impossibile. Come diceva un grande inviato del Corriere della Sera, Ettore Mo: “Un racconto senza aggettivi non è mai riuscito a nessuno”. Io non mi sono mai né schierato, né messo alla coda di qualche potente. Oggi si direbbe che sono fluido: mi piacciono molte cose del centrosinistra, altre del centrodestra e del mondo cattolico, da cui provengo. Non sono vicino ad alcun partito, ma anche nel giornalista che si occupa di politica ci può essere una presa di posizione, senza che questo infici l’autorevolezza e l’imparzialità del racconto. Quando incontro il politico di turno che non ha fatto quello per cui i cittadini lo hanno eletto, e mi è capitato tantissime volte, mi schiero sempre dalla parte dei cittadini: questo non significa violare l’imparzialità richiesta al giornalista.

Qualche aneddoto che mi puoi raccontare in merito?

Non citerò il nome per carità di patria, ma si tratta di un politico importante, di qualche legislatura fa, a cui ho chiesto perché era favorevole alla reintroduzione del finanziamento pubblico ai partiti. L’avevo contattato moltissime volte e mi aveva dato la sua disponibilità per l’intervista, poi ogni volta non si era presentato. Quindi, mi sono messo fuori da Montecitorio, l’ho chiamato dicendogli se potevamo incontrarci per l’ora di pranzo e mi ha risposto che si trovava in Toscana. Peccato che, appena appeso il telefono, me lo sono trovato di fronte, fuori da Montecitorio. In quel momento il giornalista è legittimato a schierarsi perché è stato preso in giro, e in qualche maniera con lui è stato preso in giro anche il pubblico.

masterclass

E in quel caso come si gestisce il confronto con il politico da torchiare?

Credo che la stella polare sia l’argomento che ti guida, come in ogni inchiesta. Se hai dalla tua la forza delle domande, allora puoi affrontare qualsiasi politico, di qualsiasi colore, soprattutto se non frequenti i politici al di là del tuo lavoro e non diventi una specie di loro sodale, cosa terribile per il giornalista. Se hai questa libertà, di cui mi pregio, allora puoi fare tutte le domande che vuoi a tutti i politici in maniera imparziale. E il confronto si gestisce con l’onestà, la forza delle tue domande, anche le più irriverenti, e la preparazione. Poi, se serve, bisogna avere l’onestà intellettuale di rinegoziare il proprio punto di vista acquisendo elementi anche dalla fonte politica. Che è giusto sentire non solo per torchiarla, ma anche per avere delle informazioni.

Ti è mai stato chiesto, da parte di una redazione per cui lavoravi, di mollare o ammorbidire i toni di un’inchiesta per motivi di partigianeria politica?

Ti stupirò, ma non mi è mai stato chiesto. Anche perché io mi sono occupato di politica limitatamente agli sprechi e alle condizioni di ricaduta sulla vita dei cittadini. Non ho mai seguito la politica di palazzo e posso dire che mi sono sempre sentito libero di realizzare ogni mio servizio, senza aver mai subito pressioni, né condizionamenti. A me interessa torchiare il politico nel momento in cui non ottempera agli impegni presi con i cittadini, mettendolo di fronte a dichiarazioni e promesse fatte, e poi non rispettate.

Quanto le inchieste sul malaffare della politica, secondo te, possono poi avere un impatto sull’opinione pubblica e condizionare il consenso?

Io credo molto nel giornalismo militante, nel senso più alto del termine. Credo in un giornalismo che non ha paura di mettere a nudo il re, di andare a fondo, anche quando questo comporta dei sacrifici, dallo studio delle carte al recuperare documenti che di solito non ci vengono messi a disposizione. Un’inchiesta sul malaffare ha senso non solo andando a prendere il politico per metterlo di fronte alle sue responsabilità. Ha senso quando raccogliamo anche altri elementi, facendo quello che Falcone chiamava “follow the money”, cioè seguire il denaro. Così, credo che il giornalismo possa cambiare l’opinione pubblica, non per condizionarne il consenso, ma per rendere note cose che il pubblico non conosceva, realizzando appieno la suo sua ragione d’essere. Un’inchiesta fatta bene non mira a colpire come grimaldello una parte politica. Il giornalismo deve essere il grimaldello del pubblico, dei cittadini. La forza della denuncia giornalistica sta nella misura razionale e ponderata dell’analisi.

Se perdiamo di vista la forza del dato di realtà e diventiamo grancassa di una parte politica non facciamo un servizio di informazione, ma rompiamo, com’è successo, il patto sociale con il pubblico. Che poi non ce lo perdona. E recuperare questo patto sociale è la vera sfida del giornalismo di oggi.

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