Il tempo, i soldi e la (vera) ricchezza: su cosa poggia la felicità dell'uomo?

Certo, i soldi sono importanti. Ma poi? Che senso ha acquistare qualcosa se non hai tempo per goderne? Che senso ha fare i milioni se non hai qualcuno con cui condividerli e a cui lasciarli?

Il tempo, i soldi e la (vera) ricchezza: su cosa poggia la felicità dell'uomo?

Il tempo è la vera ricchezza dell’uomo. Certo, i soldi sono importanti, ma se non hai nemmeno un momento per spenderli allora non hanno valore. Li accumuli in banca e la cifra che vedi quando apri il conto corrente ti soddisfa. Ma poi? Che senso ha, per esempio, acquistare qualcosa se non puoi fermarti un attimo per goderlo? Che senso ha fare i milioni se non hai qualcuno con cui condividerli e, magari, a cui lasciarli? Il tempo è fondamentale per la vita di una persona. E non è un caso che tutti i più grandi filosofi si siano posti questo tema: che cos’è questo scorrere della vita? E perché è così importante per l’uomo?

Oggi, i grandi filosofi scarseggiano, così come il tempo. La prima causa di quest’ultima mancanza è dovuta essenzialmente a come è cambiato il modo di lavorare e, soprattutto, di intendere il lavoro. In primo luogo, si lavora troppo e per troppo poco. E non parlo solo dei rider, speso immigrati costretti a correre come dei dannati sotto pioggia e sole cocente per qualche spicciolo. Parlo del lavoro in generale: dai docenti di ogni grado, che dovrebbero rappresentare un’eccellenza del nostro Paese, fino ai carpentieri e agli infermieri, solo per citarne alcuni. Speso si studia per anni, si fanno sacrifici e ci si ritrova a fare turni massacranti pagati pochissimo. Certo, esiste la vocazione, quel mestiere a cui sei chiamato e per il quale sei disposto a tutto, anche a lavorare sedici ore al giorno e a guadagnare pochi euro pur di farlo. Ma poi ti rendi conto che perdi la vita che c’è oltre il lavoro. Quella vera. Che ti permette, se sei onesto con te stesso, di usare quel tempo liberato per conoscere davvero chi sei e quali sono le tue passioni.

Finisci di lavorare, ti trovi fuori dall’azienda e cominci a guardare il telefonino. Che non ha più il filo ed è dunque molto più pericoloso perché lo porti sempre con te. Chiunque può cercarti ed ovunque. E a qualsiasi ora. Non resta che una cosa da fare: spegnerlo. Il problema è che poi i tuoi conoscenti, abituati a sentirti ogni cinque minuti, vanno in ansia. Sarà mica morto? Perché non pubblica niente su Instagram? Perché si è cancellato da Facebook. Perché vuole vivere. Ma vivere davvero. Incontrando persone, conversando con loro, stando all’aria aperta, magari in mezzo alla natura. Ma non è più possibile ormai. Farlo richiede uno sforzo enorme. Tutto questo, si badi bene, non significa essere retrogradi. Gli smartphone sono utilissimi. Hai bisogno di una cosa? C’è Google. Hai i genitori lontani? Basta una videochiamata con FaceTime per poterli vedere. Il problema è che noi, anche grazie al marketing che accompagna questi prodotti, ci siamo lasciati drogare. Vi ricordate quando ci facevamo gli squilli per dirci che ci pensavamo? Ma che motivo c’era? Sarebbe bastato andare a casa di quella persona e citofonare per dirglielo. E per tanto tempo lo abbiamo fatto. Poi basta. Siamo passati agli squilli. Ti penso. Ma non così tanto da alzare il sedere e venire da te. E allora ti scrivo. Però poi, se non mi rispondi entro dieci minuti, vado in ansia. E se metti il punto alla fine della frase sei arrabbiato con me. E quella emoticon cosa vorrà dire? E così siamo sempre più frustrati.

Diventiamo “smombie”, ovvero zombie del telefonino. Giriamo il mondo con il cellulare in mano, con lo sguardo rivolto verso i nostri piedi. La distanza massima sono trenta centimetri. Non c’è più un orizzone. È sparito il cielo. E se c’è è solo per immortalarlo nei pochi pixel del nostro schermo per condividerlo con gli altri. L’immagine dura il tempo di una inquadratura. Se vedo un tramonto non mi siedo più per contemplarlo, ma solo per condividerlo. E non perché mi importi realmente qualcosa di questa condivisione, del resto la gran parte dei follower nemmeno la si conosce, ma perché vogliamo i like. Vogliamo sentirci fighi e, quindi, accettati.

Dal telefonino, poi, passano anche le notizie. Sono gli algoritmi a decidere cosa possiamo leggere e cosa no. Hai aperto un articolo su un determinato tema? Allora ecco che l’algoritmo te ne piazza altri tre o quattro. L’informazione, spesso raffazzonata, ci raggiunge ovunque. E non è un bene. Pensate al Covid, soprattutto ai primi mesi della pandemia. In ogni istante venivano pubblicate notizie su come si diffondeva il virus, sulla sua possibile origine in laboratorio, sui morti, sui corpi accatastati negli ospedali e così via. A raggiungerci non erano solo le notizie, ma un’ansia collettiva. Questo non vuol dire che non si debbano informare le persone. Anzi. Significa però che informare implica responsabilità. Ma soprattutto che noi possiamo (e dobbiamo) scegliere di non informarci. O almeno di non essere bombardati dalle notizie. Perché spesso, dato che più che Abc del giornalismo dovremmo parlare di Sss (sesso, soldi e sangue), le informazioni ci creano disagio, se non preoccupazioni. Solo che una volta le bisognava andare a cercare in edicola, per radio o alla televisione.

Oggi ti arrivano automaticamente sullo smartphone e poco importa se siano state verificate o no. E addio pace dell’animo. E addio libertà. E addio tempo libero. Benvenuta schiavitù. Senza filo, ovviamente. Ma con una catena molto più pesante. E corta.

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