Le Nazioni Unite prendono tempo, pace lontana

Marcello Foa

Tutto rinviato, sine die. La Forza internazionale di pace per ora non si fa. Ieri all’Onu i Paesi disposti a mandare i propri soldati nel Sud del Libano, non si sono nemmeno riuniti. E, sebbene il meeting fosse stato convocato dal segretario generale dell’Onu Kofi Annan, hanno convenuto che fosse opportuno attendere le decisioni del Consiglio di Sicurezza. Solo quando sarà chiara la natura della missione, si potrà discutere della composizione del contingente, di chi debba comandarlo e, ovviamente, delle regole di ingaggio.
È una decisione dettata dal buon senso, ma che ancora una volta dimostra l’impotenza della comunità internazionale e che è destinata ad allungare i tempi di soluzione della crisi. Il Consiglio di sicurezza si riunirà domani o giovedì, ma probabilmente non voterà prima di venerdì o sabato. Questo significa che il negoziato operativo sulla forza di pace comincerà solo domenica. Calcolati i tempi tecnici di preparazione, la missione Onu potrà essere pronta solo tra un paio di settimane, nella migliore delle ipotesi. Un’eternità.
L’opinione pubblica araba è sempre più esasperata e accusa gli Usa di fare il gioco dello Stato ebraico. Sebbene domenica notte la Rice sia riuscita a convincere Israele a interrompere per 48 ore i raid aerei, l’Amministrazione non ha cambiato linea. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si è detto «estremamente colpito e scioccato» dalla strage di Cana, ma non l’ha condannata esplicitamente per l’opposizione degli Stati Uniti. Il presidente Bush, parlando da Miami, ieri ha ribadito di volere «una pace duratura e sostenibile», ma ha evitato ancora una volta di pronunciarsi a favore di una tregua immediata. Di ritorno a Washington da Gerusalemme, “Condi” ha ammesso che resta «molto lavoro da fare» e che la tragedia dei bambini morti ha complicato le trattative diplomatiche. Ma resta fiduciosa e ritiene che esistano le condizioni per giungere a una cessazione delle ostilità tra Israele e gli Hezbollah.
Il piano Usa è articolato in tre punti che prevedono: un cessate il fuoco, un accordo-quadro che includa principi politici per un’intesa di lungo periodo e misure per prevenire nuovi focolai di violenza, l’invio di una Forza internazionale di stabilizzazione. Ma, sebbene equilibrato, questo progetto non raccoglie i consensi di tutti.
Il primo a non sembrare convinto è Israele. Rispondendo alle domande durante un infuocato dibattito al Parlamento, il ministro della Difesa Peretz ha ribadito con decisione il no a un cessate il fuoco immediato e, anzi, ha annunciato un ampliamento dell’offensiva contro gli Hezbollah. Poi ha posto le condizioni per lo spiegamento della Forza Onu: primo, dovrà essere dislocata anche sul confine tra Libano e Siria «per impedire ulteriori forniture agli Hezbollah». Secondo, lo Stato ebraico concluderà le operazioni di guerra solo dopo l’arrivo del contingente multinazionale. Ovvero esattamente l’opposto di quel che chiede la Rice.
Parigi è intenzionata a respingere le richieste di Gerusalemme e a proporre soluzioni diverse rispetto a quelle statunitensi. Ieri la delegazione francese al Palazzo di Vetro ha fatto circolare una bozza di risoluzione in cui si afferma che lo spiegamento dei soldati potrà avvenire solo se Israele e il Libano avranno raggiunto un accordo politico permanente. E da Beirut, dove si è recato in visita di solidarietà dopo la strage di Cana, il ministro degli Esteri Philippe Douste-Blazy ha ribadito che in questi frangenti la proclamazione di un cessate il fuoco, senza condizioni, deve essere una priorità.
«Far tacere le armi, subito, per proteggere la popolazione civile», è l’implorazione che si alza da molte capitali: da quelle europee (inclusa, a sorpresa Londra, dove domenica anche il premier britannico Blair per la prima volta si è distanziato dalla Casa Bianca) a quelle arabe. Una su tutte: il Cairo, dove Hosni Mubarak ieri ha letto in tv un discorso molto duro nei confronti di Israele, accusato «di aver superato ogni linea rossa con la strage di Cana». Il presidente egiziano ha ammonito la comunità internazionale sui rischi «di un collasso del processo di pace in Medio Oriente».
Ma da Gerusalemme in serata il premier Olmert, rivolgendosi alla nazione, avverte: «Nessuna tregua nei prossimi giorni».

Le operazioni proseguiranno fino a quando «non sarà rimossa la minaccia che incombe sulle nostre teste, non ritorneranno i nostri prigionieri... e gli israeliani potranno dormire in pace nelle loro case». Da Washington il sottosegretario americano Burns lo asseconda: «Non si può ottenere molto senza rimuovere Hezbollah dalla scena». E la pace si allontana.

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