"Nel gulag spalavo cemento e pensavo a quando avrei ripreso a suonare"

Il grande violoncellista domani si esibirà al Ravenna Festival con Martha Argerich: "Siamo amici da 40 anni, è uno dei doni che ho avuto dalla vita"

"Nel gulag spalavo cemento e pensavo a quando avrei ripreso a suonare"
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È il violoncellista che visse due volte. Si chiama Mischa Maisky e festeggia due compleanni, l'ufficiale il 10 gennaio, secondo il quale risulta settantacinquenne; e l'ufficioso il prossimo luglio, mese in cui Maisky, cinquant'anni fa, tornò a suonare in pubblico dopo vicissitudini varie. Era fresco d'espatrio dall'Urss: più un sospiro di sollievo che un «addio ai monti» manzoniano. Archiviava anni di prigionia, campi di lavoro, ospedali psichiatrici e zero possibilità di suonare. Maisky e Martha Argerich, la pianista fra i pianisti, domani suoneranno il Ravenna Festival. È l'edizione numero 34 e sarà speciale, in una Romagna messa in ginocchio dall'alluvione. Ma proprio perché è Romagna si riparte, e con tanto di sorrisi e tanti concerti fino al 23 luglio.

Maisky, chi è la donna misteriosa che ha nome Martha Argerich?

«Misteriosa, unica, incredibile. Lunedì ha compiuto 82 anni, ma non ha età. È tra i miei più grandi amici e partner musicali, suoniamo assieme da 40 anni: uno dei più bei doni della mia vita».

Quali sono gli altri doni?

«I miei insegnanti, Rostropovich e Pjatigorskij. Il fatto di aver potuto incontrare Casals a pochi mesi dalla morte e l'aver suonato venti concerti e inciso tre cd con Bernstein. I miei figli, il mio violoncello Montagnana».

E un talento non comune...

«Che vuol dire grande responsabilità. Fare il musicista non è glamour come appare, è cosa assai complicata e difficile».

La più grande difficoltà?

«Conciliare vita professionale e vita privata. È stata un'impresa stare con i miei figli, dedicare loro energie e tempo di qualità».

Quando la mente va alla sua prima vita, quella in Urss, che cosa prova?

«Un mix di sensazioni, è stata una vita complessa ma anche ricca. Ho avuto una formazione sbalorditiva al conservatorio di Mosca anche se poi, dati gli accadimenti, ne sono uscito senza un diploma. Lì ho incontrato Ojstrach, Gilels, Richter, Shostakovich. C'è poi l'altro lato, quello di mio papà morto prematuramente e perseguitato poiché ebreo, quindi di mia sorella che scappa in Israele e di qui il timore del regime che la seguissi, e come conseguenza i miei anni di segregazione fino all'agognato visto per Israele».

Cosa faceva nei campi di lavoro?

«Spalavo tonnellate di cemento indossando una mascherina. Un'esperienza pericolosa, ma ne sono uscito vivo. Mi reputo dunque fortunato».

Che cosa ha imparato?

«Che lamentarsi non porta da nessuna parte. Bisogna sforzarsi di vedere la luce in fondo al tunnel. E la luce arrivò con i i primi concerti in Occidente. Tra l'altro fu l'Italia il primo Paese in cui mi esibii dopo l'approdo in Israele, prima a Firenze partecipando a un concorso, e poi al Festival di Spoleto».

È stato «l'allievo» di Rostropovich. Il ricordo più toccante?

«L'ultima volta che ci incontrammo mi disse: Sei un figlio per me. Parole pronunciate con l'intensità di cui soltanto lui era capace. Di fatto è stato un secondo padre, mi ha supportato in tutti i modi (ndr, anche finanziariamente, pagando gli studi)».

Argerich è interprete dall'incredibile longevità professionale. Un caso non unico ma raro. Quanto coraggio ci vuole per ritirarsi in tempo utile, anche a prescindere dall'anagrafe?

«Ho chiesto ai miei figli e agli amici più stretti di essere onesti con me. Il giorno in cui non potrò assicurare una certa qualità esecutiva vorrei che mi aiutassero a comprenderlo. C'è chi insiste a suonare nonostante tutto. Forse è difficile essere oggettivi: non critico».

Con chi andrebbe a cena, potendo risvegliare un compositore del passato?

«Con Mozart. Ha scritto per tutti tranne che per il violoncello. Vorrei convincerlo a comporre anche per noi...».

L'ottobre scorso avrebbe dovuto suonare a Mosca e a San Pietroburgo, però ha cancellato le date. Perché?

«Per questioni di coscienza, mancano le condizioni. Preferisco offrire concerti a sostegno di chi soffre per la guerra in corso, sia ucraini che russi. Non dobbiamo dimenticare i soldati russi che si ritrovano al fronte non certo per scelta, non dimentichiamo chi protesta o chi si trova costretto a lasciare il proprio Paese. Trovo poi ipocrita rifiutarsi di eseguire musica russa».

A giorni dovrebbe tenersi il leggendario Concorso Cajovskij.

Lei era nella giuria dell'ultima edizione. Che cosa accadrà?

«Me lo chiedo anch'io: chi sarà in giuria? Chi parteciperà? Il mondo musicale russo è isolato, una tragedia nella tragedia. Dalle guerre tutti escono sconfitti, anche i cosiddetti vincitori».

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