Pensando ad Alessandro Manzoni, penso a Dostoevskij. Pare un paradosso. Renzo Tramaglino, per dire, non ha la violenza dell'uomo del sottosuolo, la schiacciante passione di Dmitrij Karamazov, l'innocenza corrusca dell'idiota, il principe Mykin. Manzoni è più raffinato. I personaggi di Dostoevskij sono tutta testa, pensieri pieni di bocche, pieni di denti; hanno bisogno di rovesciare le viscere sul tavolo. A forza di pensare, si squartano. In Manzoni, l'enigma è nello sguardo, negli «occhi neri neri anch'essi» di Gertrude che «si fissavano talora in viso alle persone con un'investigazione superba», chiedendo, infine, nient'altro che «affetto, corrispondenza, pietà»; è nella sfrenata reticenza, in un cuore tra le grate. Eppure: la pulsione è la stessa, l'interrogativo iena. Che senso ha vivere? Non è forse preferibile la morte a questa insensata vita? Nel garbuglio della Storia, nel labirinto del Tempo, costellato di cadaveri, gli eroi minori dei Promessi sposi sono, ciascuno, un Minotauro: tutti, tranne Lucia, creature inesatte, imperfette, in attesa di annuncio e di annonaria pena, bestie a metà. Mostri. Uomini.
Secondo Mario Pomilio, che ha scritto il più bello tra i romanzi manzoniani, Il Natale del 1833, Alessandro Manzoni era ossessionato da Giobbe. Lo erano anche Dostoevskij - «Leggo il libro di Giobbe e mi conduce a una dolorosa estasi; smetto di leggere e giro un'ora per la stanza, quasi in lacrime», scrive alla moglie nel 1875 - e Leopardi, «il Job del pensiero italiano», secondo la formula di Carducci, che tra il 1816 e il 1821 tenta di tradurlo, Giobbe, il rotolo biblico, fermandosi, per troppa prossimità, dopo i primi versetti. La rivolta di Giobbe si concretizza in quell'atto d'accusa contro la vita, terribile - «perché non sono morto appena uscito dal grembo?» -, che Leopardi fa suo: «è funesto a chi nasce il dì natale». Forse morire è meglio che vivere, forse la vita non è che la vittoria della morte.
Secondo Luca Doninelli, che ha raccolto i suoi «Scritti sui Promessi sposi» in La colpa di essere nati (La nave di Teseo, pagg. 182, euro 16), il romanzo di Manzoni ruota intorno alla stessa asserzione: «non nascere è la sorte migliore». Doninelli ci dice anche un'altra cosa. Che un romanzo, quando è tale, parte da alcune idee, di solito eccellenti, quando non eccelse. Ma che queste idee lo scrittore si costringe a metterle «a repentaglio, a obbligarle al collasso». Lo scrittore è uno che si vuole fare del male, che provoca il romanzo fino all'incendio - che del fuoco ama la cenere. «La scrittura l'esperienza di uno schianto», scrive Doninelli.
Una delle idee dei Promessi sposi, uno dei temi germinali - che si focalizza, in particolare, sulla figura della Monaca di Monza - è, appunto, «la colpa d'esser nati». Morire è meglio che vivere, non nascere è il vero premio. «La morte si sconta vivendo», scrive in un verso epigrafico Giuseppe Ungaretti. Che inquietudine possente: proviene dalla terra di Uz, dai deserti d'Egitto, dai lembi del Mar Morto, urlo di lacero profeta, con aureola di locuste. Idea atavica e assassina, che avviluppa - lo ricorda Doninelli - la tragedia greca, il destino che acceca di Edipo. Manzoni, lo sapevano i suoi discepoli - Leonardo Sciascia, Carlo Emilio Gadda, Giovanni Testori - mostra il male che alligna in ogni cosa: in vece dell'umiltà, banalotta, indovina la scaltrezza, registra la dinamica della delazione, ha capito - molto prima di Dostoevskij - che il male accade, sempre, «a fin di bene», che i problemi esplodono in pestilenza quando vuoi fare del bene al prossimo, perché al cospetto del bene, qualora esista, bisogna soltanto inchinarsi - le suffragette e i pompieri del benessere civico, in ogni caso, scrivono pessimi romanzi. D'altronde, in uno dei libri più brillanti di contro-critica manzoniana, L'altro Manzoni (Ares, 2008), Aldo Spranzi tentò di dimostrare che «I promessi sposi non sono un romanzo cattolico, ma un'opera pervasa da un radicale nichilismo anticristiano». A tratti, ci ho creduto: la protervia del convertito Manzoni vede il demonio ovunque, anela al duello. In effetti, il mondo, questo mondo, mondano e immondo, è il gran teatro dell'Ostacolatore, dell'Ingannatore, di Satana.
La questione però è più complessa e riguarda cosa significa essere cattolici. Doninelli - che più che con Dostoevskij vede dei legami «tra il Manzoni del Romanzo e il James Joyce dell'Ulysses» - ci dice che Manzoni non ci lascia sulla soglia dell'insensatezza, ma che non stila neanche il codice per vivere felici. Il mondo può essere il luogo della gioia, a volte della grazia, ma non della felicità, perché il mondo è un terreno di scontro, è lo spazio della lotta. Manzoni, dice Doninelli, insegna che siamo veramente liberi non se rinasciamo - «perché ri-nascere porta la radice di una reiterazione, di una perpetuazione» - ma se «si nasce di nuovo». Morire a questo mondo e nascere ancora. Nel Vangelo di Giovanni è detto in questo modo: «Se il grano di frumento, caduto a terra, non muore, rimane solo; se muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde, e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (12, 24-25). Per questo, i personaggi dei Promessi sposi sono tutti spezzati. Devono rompersi, devono spargersi, per nascere ancora, per dare frutto. «Il padre Cristoforo non era sempre stato così, né sempre era stato Cristoforo: il suo nome di battesimo era Lodovico». La rapacità di questa frase continua a folgorare. Il nome consacrato - Lodovico - va infranto, per un altro - Cristoforo -, tedoforo di morte, monito (è il nome del fedele servitore di Lodovico, ucciso durante la rissa scatenata dal suo padrone).
Doninelli - che è scrittore, dunque entra nell'intimo del libro senza baciamano critici - esamina la liaison tra Gertrude e Lucia («Ce le figuriamo stranamente somiglianti, della stessa altezza, una pura come una rosa, l'altra devastata da una vita... Eppure simili... Gertrude vorrebbe diventare niente, trascolorare nel volto, nella mente e nel passato di Lucia»), svela la faccia di don Rodrigo dietro la pubblica facciata («è un piccolo dio, un arconte della tradizione gnostica, crudele e vicino»), sonda la tetra nomea dell'Innominato, che «uccide Dio e diventa dio egli stesso, usurpandone la teologia negativa»; scova, dietro la patina del romanzo popolare - con i lazzi, i bravacci, i bivacchi e le figure del Carnevale - i crismi dell'atto sacro, dell'auto sacramental.
In questo carosello di personaggi mutevoli, mutanti, chi resta integro, recluso nel proprio mallo, privo di sequela - che significa: morire a ciò che si è - non dà frutto, nulla ha da offrire, è insipida offerta. Per costui, vivere è pari a morire. Eppure, don Abbondio - nel cui nome giace l'abbondanza e l'abbandono -, «vile e mediocre», sopravvive all'evoluzione del romanzo, non cambia mai e infine unisce in matrimonio gli sposi promessi. È lui a unire Renzo e Lucia. Non Fra Cristoforo. Non un santo.
Eccolo lì, ancora, il Manzoni che ti piglia alle spalle, non sottostà ad alcuna norma, sfugge da ogni gabbia con cui vorremmo immusonirlo, e interpreta, geniale - cristiano nell'autentico segno - i capricci della Provvidenza, l'improvviso agguato di Dio, da sotto, come un serpente.
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