Il lieautenant Gervasoni, invidiabilmente asciutto come un osso di seppia, pur sotto la mimetica e nonostante il caldo umido da soffoco, sembra scrutare con sguardo severo i documenti. «I-ta-lia-no…», sillaba con un sorriso impercettibile, cercando goffamente di ritrovare le remote cadenze dei suoi nonni arrivati un giorno in America da chissà quale angolo dello Stivale. Poi, nel restituirmi la patente, infrangendo per un attimo la consegna e il contegno militare, si lascia andare a un amichevole «ciao», portando di scatto la mano destra alla visiera. «Drive carefully, guida con prudenza, perché nella base – mi avverte ovviamente in inglese - ci sono lavori in corso».
Missione patriottica. Benvenuti a Parris Island, contea di Beaufort, South Carolina, Stati Uniti d’America, dove una gigantesca scritta dipinta e rinfrescata sempre con cura su un ponte che domina il viale d’accesso, grida a caratteri cubitali una missione così gravida d’orgoglio patriottico da poter gonfiare qualsiasi reale o hollywoodiana bandiera a stelle e strisce: «We make marines», noi costruiamo marines. E’ la loro “scuola” più importante e una delle più antiche, operativa dal novembre del 1915 e dal 1949 aperta anche alle reclute del gentil sesso.
Retorica e sincerità. Di qui sono uscite centinaia di migliaia di fanti del mare, dai 205mila mandati a combattere la Seconda guerra mondiale, ai 160mila per l’operazione Iraqi Freedom. Il che spiega quell’altisonante «costruiamo marines» che a qualcuno potrà anche suonare un po’ retorico, ma che ha indubbiamente anche il merito dell’onestà. Nel senso che avverte da subito, senza giri di parole: «caro il mio sbarbato, cara la mia recluta, se vuoi ripensarci fallo ora, perché poi sarà troppo tardi». Insomma, watch you ass, nel poco elegante ma sincero e anglosassone significato di «guardati il culo».
Una città in divisa. Beh, più che una base militare è una città, dato che tutto è sempre maledettamente relativo, qui in America, quando si parla di dimensioni. Specie per chi è abituato alle misure e alle ristrettezze italiane. Oltre alle caserme e alle mense, ai dormitori e alle officine, alle palestre e agli spacci dove fare la spesa è un’esprienza di vita - nonchè una pacchia - a Parris Island ci sono banche, ufficio postale, cinematografi, motel per i parenti in visita, oltre a ristoranti, fast food e chiese di ogni culto, dove poter nutrire l’anima dopo averlo fatto con il corpo. Fanno in tutto 8.095 acri, ovvero 19,6 square miles, pari a una cinquantina abbondante dei nostri chilometri quadrati, quanto un capoluogo italiano come Udine. Meno della metà di tutto questo spazio è abitabile e abitato, residenza di oltre 4.800 anime (69,14% bianche, 17,35% afroamericane, 1,76 asiatiche e via via elencando, con un rapporto di una donna ogni 3 virgola qualcosa di uomini). Più ovviamente le reclute.
Tra querce e aironi. Il resto, è un lussureggiante paradiso subtropicale, coperto da palme svettanti, “foreste” di azalee e maestose querce secolari. Ed è solcato dal fitto intrico di canali di una laguna sterminata protesa verso l’Oceano. Qui, al ritmo immutabile di sei ore in sei ore, ovvero a ogni saliscendi di marea che Dio manda puntualmente in Terra, viene pompata e poi restituita l’acqua dell’Atlantico, fatta filtrare dai quei giganteschi “reni” ecologici che sono di fatto le marshes, isolotti di natura rimasta vergine, coperti di vegetazione e popolati da cervi, maiali selvatici e aironi d’ogni colore.
Ordini e sudore. Ma è dentro, nella base, su piazzali di cemento così smisurati da farci quasi atterrare un jumbo, che pulsa la vera vita di Parris Island. Scandita da orari e da secchi ordini, da sveglie antelucane e da sfiancanti punizioni, lasciando quindi ben poco spazio alle considerazioni naturalistiche e all’oziosa contemplazione di alberi e volatili. Quello è un lusso per noi, per i visitatori. Loro, le reclute, sono schierate ogni giorno lì, sotto il sole che picchia o sotto il diluvio universale, sopra quella distesa di cemento rovente oppure mitragliati dalla grandine che da queste parti non è cosa infrequente. Comunque immobili, con il fucile sorretto per interminabili minuti da un’unica mano protesa, oppure in addestramento di marcia o di corsa, sotto uno zaino più grande di loro.
La terribile prova finale. Così, per 11 settimane, culminanti in un micidiale pacchetto finale fatto di sfide fisiche e mentali, il micidiale The Crucible. Ovvero 54 ore con privazioni del cibo (appena tre razioni fredde a disposizione) e del sonno, comprese 48 miglia da percorrere a piedi intervallate da 36 differenti “stazioni” (un autentico Calvario!) e portandosi sempre addosso un equipaggiamento di 23 chilogrammi oltre al peso del 782 Gear (lo zaino da campo), dell’uniforme completa di elemetto e del fucile d’assalto M16A2.
Tutti per uno. Quelle reclute, a Parris Island, tu puoi sadicamente osservarle da una comoda gradinata, proprio accanto alla replica del monumento ai caduti di Jwo Jima. Davanti a te, sudano l’anima e qualcos’altro agli ordini del loro drill sergeant, il «fottutissimo» sergente istruttore, al tempo stesso aguzzino e fratello maggiore.
A lui, che non lascia impunita la benchè minima imperfezione, a lui che sbraita e si incazza sempre più, fino al culmine rappresentato dal rigido cappello marrone gettato con eloquente stizza in terra, i ragazzi rispondono a squarciagola in coro, fino a sfiancarsi, quel «Sir, Yes, Sir» a ogni più che pignolo appunto fatto anche a uno soltanto di loro. Se sbaglia uno, pagano tutti. Così ogni giorno, per undici settimane. Ed è allora che capisci. Perché è soltanto così che si diventa un Corpo. Perché non c’è un altro modo per fabbricare i marines.
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