Nella Torah le origini dell’astrattismo

La cosiddetta «arte aniconica» che a metà del Novecento si diffonde in tutta Europa nasce dalla tradizione ebraica che vieta le immagini

«Due grandi tradizioni iconoclastiche o almeno aniconiche, che rifiutano cioè la raffigurazione, sono alla radice delle svolte più importanti nell’arte del Novecento. L’altra grande tradizione iconoclastica, sia pure molto pragmaticamente iconoclastica, quella islamica (il Corano proibisce solo di non raffigurare Dio, non dice niente sulle altre immagini), non ha invece dato grandi frutti. Si consideri il trionfo dell’astrattismo nella pittura del Ventesimo secolo. Questa tendenza ha il suo primo punto fermo nell’opera di Picasso cubista che però si annoia rapidamente del nuovo modo di dipingere. “Non posso starmene qui a Montmartre a disegnare solo bottiglie e chitarre”, disse dopo essere diventato negli anni Dieci il re di Parigi, e se ne andò a Roma a ispirarsi alla tradizione classica, lanciandosi poi a dipingere per un bel po’ quei suoi donnoni così legati al neoromanico catalano. Chi ha dato radici indistruttibili, ben più di Picasso, all’astrattismo sono stati invece Malevic e Kandinski, due russi su cui pesa l’influenza della lunga, sotterranea, ma indistruttibile tendenza iconoclastica della tradizione cristiano ortodossa. Per centotredici anni a Bisanzio nell’VIII secolo dopo Cristo, iconoclasti e iconofili si scontrarono, lasciando sul campo qualche centinaio di migliaia di morti. Vincono gli iconofili ma la tendenza iconoclastica cova sotto le ceneri. E comunque la pittura bizantina con i suoi rigidi canoni espressivi, con la scelta di imporre uno schermo tra chi guarda il dipinto e le figure di santi e madonne che non vengono rappresentate ma simbolizzate, è già una premessa dell’astrattismo. Poi, quando l’astrattatismo si è ormai completamente affermato, quando ha conquistato Parigi e quindi, nella prima metà del Novecento, il mondo, chi sceglie in controtendenza di rappresentare la realtà nel massimo della sua carnalità, e spesso della sua sensualità, sono artisti che vengono da un civiltà ancora più iconoclastica di quella cristiana ortodossa: sono gli ebrei Modigliani, Soutine e infine Freud».
Studiare i percorsi della civiltà occidentale, i centri della sua formazione per capire qual è l’anima della parte del mondo in cui viviamo, è oggi l’impegno primario, oltre la sua tradizionale attività di critico e storico, di Flavio Caroli, ordinario di Storia dell’arte moderna al Politecnico di Milano. E il miracolo di come spunta la risposta figurativa all’astrattismo che ormai era considerato vincitore definitivo (per la rappresentazione della realtà così com’è c’è la fotografia, diceva una zarina dell’arte come Peggy Guggenheim) prima a Montparnasse e poi addirittura nella Londra, marginale rispetto ai grandi circuiti d’arte centrati su Parigi e poi su New York, lo affascina. E Caroli è profondamente convinto che questo improvviso risveglio figurativo così esplicitamente «carnale» abbia radici anche e soprattutto nella civiltà ebraica. «Stiamo ragionando di grandi artisti, che hanno lasciato un segno nel secolo appena passato. La mostra di Lucien Freud al Museo Correr di Venezia ha chiamato migliaia di visitatori. Il mito maledetto di Amedeo Modigliani vive con noi».
Pittori ebrei o ebrei che facevano i pittori? In fin dei conti Modigliani e Soutine erano così inseriti nella realtà parigina che non è facile distinguerli dai colleghi «parigini» contemporanei e di altre fedi religiose. «Arrivano a Parigi e la nostra civiltà è così forte da educarli», dice degli artisti di Montparnasse, Guillaume Apollinaire.
«Ma certo Modigliani non lo si può interpretare senza riflettere sul manierismo toscano. Nei paesaggi di Soutine si sente la lezione di Van Gogh. Dalla sua, Freud cresce come artista a Londra subito dopo e insieme a un altro grandissimo pittore, Francis Bacon, che in tanti particolari anticipa e accompagna l’ispirazione del pittore nipote dell’inventore della psicoanalisi. La pittura europea si forma attraverso una serie continua di contaminazioni. Eppure le radici di civiltà forti e strutturate lasciano il loro segno. Così l’ortodossia sui russi, così la civiltà ebriaca sui tre pittori che ho appena citato».
È una tesi un po’ paradossale, la religione ebraica proibisce esplictiamente di dipingere la realtà. L’Esodo recita così: «Tu non farai statue o altre figure di ciò che sta in alto nel cielo o di ciò che sta in basso in terra o di ciò che è nell’acqua sotto la terra». Come mai da questa tradizione così violentemente aniconica, che sul rifiuto dell’immagine, come si comprende leggendo in vari passi la Bibbia, fonda la sua autonomia dalle culture politeistiche che circondavano il popolo d’Israele, come mai proprio da questo filone spunta improvvisamente una così forte tendenza figurativa e carnale?
«La vocazione iconoclastica nell’ebraismo è certamente fortissima. Il povero Soutine nello shtetl, nel suo villaggio ebraico-lituano, Smilovitchi, non lontano da Minsk, quando dipingeva da adolescente, veniva spesso preso a botte dai suoi due fratelli più grandi che gli dicevano che un ebreo non può disegnare. I venticinque rubli che gli consentirono di andare a studiare arte a Minsk, li ottenne come risarcimento per le botte (venne lasciato per terra quasi morto) che gli aveva dato il figlio di un pio ebreo dello shtetl cui lo sventurato Chaim aveva proposto di farsi ritrarre.
«Insomma, per gli ebrei ortodossi Dio era il solo e unico disegnatore. Ma l’ebraismo è una grande civiltà fondata non solo dalle sue regole religiose. E la via ebraica all’arte figurativa ha una sua lunga storia. Parte innanzi tutto con l’ellenismo che influenzò in modo fondamentale il popolo d’Israele: da qui la traduzione in greco della Bibbia. In rapporto con la cultura ellenistica si affermò il gusto per le decorazioni innanzi tutto delle sinagoghe: tra l’altro anche queste sono “un’invenzione” ellenistica. Quando, poi, nel Medioevo, grazie anche al peso che esercitava nel mondo islamico, l’ebraismo divenne elemento propulsore del pensiero scientifico e filosofico con figure come Maimonide, l’influenza sul nascente umanesimo italiano (con tutto quello che quel periodo significò nella rivoluzione dell’arte pittorica del tempo), l’attrazione culturale su personaggi come Federico II e Dante, fu fortissima. Un’altra grande tradizione ebraica con decisivi risvolti figurativi è quella esoterico-cabalistica e platonista che - via i cattolici Marsilio Ficino, Nicola Cusano, Pico della Mirandola - arriva a Giorgione (quasi sicuramente ebreo e che riproduce segni ebraici nei suoi quadri) e a Botticelli, affascinato dall’esoterismo. Non va dimenticato che il più grande pittore del Seicento, Rembrandt, di rigida formazione calvinista, viveva nel quartiere ebraico dell’Amsterdam di Spinoza: e la tradizione israelitica (anche attraverso le commesse di dipinti da parte della comunità: la tradizione di mercanti ebraici d’arte è formidabile e dominante nel centro oggi più importante, New York) non manca di pesare sul pittore olandese, di cui si ricorda anche uno splendido ritratto di una “sposa ebrea”».
Quella della civiltà ebraica è senza dubbio una lunga storia costellata di tragedie: gli esodi che si susseguono, le distruzioni del Tempio, le persecuzioni romane, l’invenzione dei ghetti, la cacciata da Spagna e Portogallo a metà del Quattrocento, il primo terribile pogrom ucraino nel 1648 sino alla Shoah. È incredibile come questa civiltà sia sopravvissuta e non si sia mai fossilizzata in puri riti di appartenenza. Però dopo la Rivoluzione francese gli ebrei iniziano a essere assimilati nei nuovi Stati laici. Al di là dei loro legami con le comunità israelitiche, la loro cultura non diventa, dunque, quella delle nazioni di appartenenza? Gli ebrei non diventano di fatto francesi, inglesi, americani e così via?
«Senza dubbio i processi di assimilazione sono efficaci, gli artisti di cui stiamo discutendo quando raggiungono la loro fama, vivono ormai fuori da un rigido rapporto con le loro comunità e sono ben inseriti nelle tendenze delle nazioni a cui appartengono. Però, mentre l’assimilazione con le loro culture nazionali resta fondamentale, gli ebrei anche fuori dalla comunità mantengono un rapporto profondo con la propria civiltà, di cui si possono leggere con chiarezza le tracce: dipingere è un modo di rompere e insieme interloquire con una tradizione. Il legame con la “carne” è anche l’attenzione formidabile alla cultura del cibo dello shtetl in Soutine, in quei suoi magnifici quarti di bue, in quella carnaccia sanguinolenta che ha nell’arte occidentale un precedente di tale valore solo in certi dipinti di Rembrandt. Nella ricerca della “carne“ vi è anche la traccia di quella spiritualità materiale che mentre nei cristiani fa cercare la salvezza in cielo, negli ebrei la fa cercare nella materialissima Gerusalemme.
«L’attenzione per la “carne” che in Modigliani è innanzi tutto espressione di un’insostenibile sessualità, è nella trama di tanta parte della letteratura ebraica. Per parlare dei nostri tempi possiamo ricordare Woody Allen o Philip Roth. Ma vi ricordate come il metafisico Kafka descrive la metamorfosi di Gregorio Samsa? “Riposava sulla schiena, dura come una corazza, e sollevando un poco il capo vedeva il suo ventre arcuato, bruno e diviso in tanti segmenti ricurvi”. Il più metaforico dei racconti diventa carne della carne dello scarafaggio. Niente metafore allusive: la metamorfosi è corazza dura, ventre arcuato diviso in tanti segmenti ricurvi, zampette. Il massimo del carnale realismo nella più irreale delle descrizioni. Il sigillo di una civiltà che ha un rapporto diretto, quasi “contrattato” con Dio, non come i cristiani (almeno fino al protenstantesimo) o come gli islamici subalterni ad Allah».
Un altro grande pittore ebreo del Novecento, ancora più esplicitamente legato alla tradizione di quelli che abbiamo citato, Marc Chagall, però, pare proprio che non possa essere indicato come un pittore «carnale».
«No, Chagall rappresenta un altro filone dell’antropologia ebraica, quella del racconto, della metafora che da illustrata con la parola diventa immagine, cantore della tradizione del villaggio lituano-ebraico che diventa dipinto».
Nel ricordo del suo shtetl c’è qualcosa della raccolta di bric-à-brac del giovane scrittore ebreo americano Jonathan Safran Foer: le descrizioni delle collezioni del protagonista in Ogni cosa è illuminata, degli oggetti della sua vita, o di quelli della superstite dello shtetl ucraino in cui s’imbatte, ricordano gli oggetti di Chagall.
«Sì, è un’altra conferma che sfidando il divieto dell’aniconismo, gli artisti ebrei portano nell’arte i contenuti profondi della loro civiltà».
C’è nella vicenda artistica di Chagall, la tappa rappresentata da un quadro che lui intitola Rivoluzione e poi ribattezza Resistenza, resurrezione e liberazione, passando da un omaggio alla Rivoluzione d’ottobre a uno alla nuova impresa sionista.
«Sì, la rivoluzione russa è un passaggio importante per l’arte del Novecento, che suscita scatenati entusiasmi e poi improvvise delusioni. Anche Malevic fa coincidere le sue espressioni pittoriche più rivoluzionarie con l’esplodere della Repubblica dei soviet. Per quattro anni i suoi dipinti rivoluzionano il modo di raffigurare la realtà, tanto quanto Lenin butta all’aria il vecchio mondo.

Subito prima e subito dopo, Malevic non è che uno dei tanti pittori influenzati dal populismo, che dipingono campagne e contadini russi. Una testimonianza particolare di quanto presto la rivoluzione fallì».
(1. Continua)

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