Nella trappola di Hezbollah

In questi caldi giorni di agosto, giorni di vacanza e di guerra, ripensando all’agosto 1939 molti si chiedono se si stia nuovamente marciando verso un conflitto mondiale. Ci sono infatti somiglianze ma anche notevoli differenze. La gente si arrostisce al sole sulle spiagge convinta, come allora, che la crisi in Medio Oriente non turberà il quieto vivere in Europa. Come allora si parla della necessità di eliminare l’ebreo, «causa di tutti i mali» del mondo, e dei diritti storici dei popoli vittime. Ma nel 1939 si trattava dell’ebreo indifeso e della Cecoslovacchia, Stato «spendibile» agli appetiti nazisti. Oggi Israele, che molti vorrebbero restasse per sempre «l’ebreo degli Stati», non è la Cecoslovacchia, e contrariamente al passato è sostenuto da uno schieramento di interessi favorevoli alla sua azione in Libano. (In Europa: Inghilterra, Germania, Ungheria, Polonia; fuori d’Europa: Stati Uniti, Australia, Canada, con Egitto Arabia Saudita e Giordania in sordina).
Come si spiega questa situazione? Anzitutto con l’inatteso successo di immagine degli Hezbollah. Diventati «gli eroi che hanno tenuto testa al più potente esercito del mondo», hanno infuso una enorme carica di adrenalina politica al radicalismo islamico, che fa paura molti . Il fatto che questo non corrisponda alla realtà sul terreno ma che per giungere a un cessate il fuoco occorra dare a Israele la possibilità di realizzare una «vittoria ai punti» dipende dalla possibilità di garantirlo da nuovi attacchi, ridando al Libano una sovranità effettiva. Cosa che né gli Hezbollah né l’Iran sono ancora disposti a fare.
La situazione di Israele non è semplice. È stato attirato in una trappola dagli Hezbollah, che probabilmente pensavano di poter piegare il pubblico israeliano con le migliaia di missili che avevano immagazzinato con l’aiuto della Siria e dell’Iran. Non ci sono riusciti, e questo li spaventa. Ma Israele ha perso tempo, ha distrutto aspettative combattendo impreparato alle tattiche sviluppate dagli Hezbollah, con un governo nuovo, inesperto complessato dal trauma della guerra in Libano nel 1982 e ora dal bombardamento di Cana (dove i morti contati dalla Croce Rossa risultano essere 28). Quello che sta succedendo è la trasformazione sotto il fuoco delle sue tattiche, come avvenne nei primi 10 giorni della guerra del Kippur. (Con 27 civili e 40 soldati morti, contro 3.000 soldati morti nel 1973 e nessun civile). Allora, però, il Consiglio di sicurezza fermò l’offensiva di Sharon a 100 km dal Cairo. Ora non riesce a farlo per le difficoltà delle grandi potenze di mettersi d’accordo sulla composizione e i compiti della forza internazionale da inviare nel Libano, sperando che Israele si sbrighi a riportare un visibile successo.
Cinismo? Certo. Ma anche senso politico, perché se Israele vince per lo meno «ai punti» si ricreerà quello spazio che - senza risolvere la questione palestinese - ridarà tempo e peso alla diplomazia per contenere la crisi sul piano locale. Se Israele esce battuto, non solo la guerra nel Libano non finirà ma si allargherà.

Perché ciò non avvenga occorre che l’accordo sul Libano contenga garanzie effettive per la cessazione del lancio dei missili su Israele. Trovare il firmatario nello schieramento del Partito di Dio entro lunedì, come spera l’Europa, sembra essere la chiave della situazione.

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