Non si capisce la ragione per cui serpeggia una certa nostalgia della sinistra massimalista esclusa dal Parlamento per non avere superato la soglia elettorale. Eppure lanomalia italiana non è quella d'oggi, ma il fatto che per molto tempo vi sia stata in Parlamento una corposa rappresentanza della falce e martello e dei suoi compagni di strada.
In nessun altro Paese europeo sono mai esistite forze del peso politico e parlamentare dei massimalisti italiani. Non in Francia dove i goscisti sono rimasti sempre a terra e perfino il Pcf è ridotto ad una larva. Non in Germania dove la sinistra è stata buttata fuori dal partito socialdemocratico e si è dovuta alleare con i residui del triste regime comunista dell'Est per superare il 5%. Non in Inghilterra dove neppure il partito liberal-democratico, che vale nazionalmente il 15-20%, elegge più di qualche parlamentare in alcuni collegi regionali. Non in Spagna dove la vittoria dei socialisti zapateriani è avvenuta senza la Izquierda Unida, cioè i bertinottiani del luogo.
E allora, perché mai tanta nostalgia? La verità è che per anni la grande sinistra italiana, cioè il Pci e i suoi derivati Pds e Ds, hanno innaffiato le pianticelle massimalistiche, prima dentro il partito e poi fuori allorché, con la caduta dell'Unione Sovietica, si sono messi insieme e sintonizzati gli spezzoni dell'anti-capitalismo, dell'anti-americanismo e anti-israelismo, dell'anti-modernità e del giacobinismo giustizialista.
Quale fosse la consistenza politica del veltronismo (e del rutellismo) lo hanno giudicato gli elettori. Ma di una cosa si deve dare atto all'ex sindaco di Roma. Di avere compiuto una svolta coraggiosa, e in un certo senso «rivoluzionaria» rispetto alla tradizione comunista italiana, tagliando i ponti con quel variegato massimalismo che, una volta reciso il cordone ombelicale con l'ex-Botteghe Oscure, si è clamorosamente sgonfiato.
Ora accade che da più orizzonti riemergano nostalgie per il recupero dei massimalisti, sia pure con intenzioni diverse. In prima linea vi sono quanti invocano la necessità di una rappresentanza parlamentare di un settore dell'elettorato non rappresentato, come se nelle democrazie ben funzionanti non fosse normale che le estreme restassero fuori dal Parlamento, salvo che non riescano ad entrarvi nel rispetto delle regole democratico-parlamentari. Circolano a proposito degli assurdi discorsi sulla «democraticità» dei sistemi elettorali, come se l'Italia dovesse essere un'eccezione rispetto a come ci si regola altrove.
Più politico-strategico è il discorso di D'Alema, il quale nota che alla sinistra in Italia non può andare il terzo dei voti se non stabilisce alleanze più vaste, specialmente con i massimalisti. Ma questo è proprio ciò che è accaduto finora e di cui il governo Prodi è stata la più recente espressione nel segno dell'impotenza. In sostanza, il leader diessino ripropone il vecchio schema frontista secondo cui, intorno al partito guida, si aggregano tanti altri gruppi e gruppetti, in nome della massima «pas des ennemis à gauche».
Altra storia è quella di Pannella che invoca intorno al Partito radicale (cioè alla sua persona) un «cantiere per dare vita con i compagni della sinistra alternativa e con tutti i liberali che vogliono starci (sic) a un soggetto politico aperto». In questo caso, però, non si tratta di un vero progetto politico (ricordo male, o le bestie nere del ministro Bonino erano proprio i massimalisti che nel governo bloccavano la sua buona volontà riformista?), ma solo dell'ennesima prova che il vecchio Marco vuole dare a se stesso e al prossimo del suo potere fascinatorio e salvifico da esercitarsi a tout azimut.
Infine, contro i ripescaggi massimalistici si invoca una soglia di sbarramento per le elezioni europee dove il proporzionalismo spinto permette la rappresentanza anche ai gruppi minuscoli. Si tratta però di una proposta illogica perché per il Parlamento europeo non sussiste la questione della governabilità come per i parlamenti nazionali.
Massimo Teodorim.teodori@mclink.it
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