Arrivederci, per una volta ancora è bello fingere. Stavolta non sono più le parole di una sua canzone, stavolta Nicola non sta fingendo, se ne è andato davvero, in modo molto rispettoso, come avevano fatto i suoi quattro fratelli e sua madre Cosima. Trascorreva la sua ultima vita a Calimera, in una casa di cura per anziani, teneva la coppola scura sulla capa, gli dava l’aria di certi uomini del sud che si radunano in piazza dopo la controra, sembrano uguali uno all’altro, le stesse rughe, la stessa dentatura improbabile, la stessa postura incurvata da fatiche antiche, stanno ore a ronzare con gli occhi e con la bocca a tutto quello che gli passa davanti.
Nicola Arigliano era nato nel dicembre del Ventitré a Squinzano: «Ma io ero ignaro del fatto, nessuno mi aveva informato». Scherzava su tutto, con tutti, con la propria faccia, con un naso che lo ha preceduto da sempre, con la balbuzie che lo affliggeva fino a quando, su consiglio di uno specialista, Nicolino non si piazzò davanti allo specchio di casa e non incominciò a parlare ad alta voce. La voce che poi avrebbe tenuto bassa, complice, soffice, al momento del canto: «Sono un cantante che non canta», era una bella frase, delle mille sue.
A volte bisognava stargli a distanza, per l’odore di aglio. Era la sua passione da guaglione, i suoi fratelli ingoiavano pasta con il ragù, la spolveravano di formaggio e lui, Colino, morsicava l’aglio e mangiava «pasta nuda», per non inguaiare gli enzimi. Basta per inquadrare il tipo e la sua cilindrata. Non basta per capire l’artista, il crooner italiano, uno che prima aveva imparato a suonare il sax tenore, il pianoforte «complementare» e dopo quel tempo aveva deciso di provare a cantare. Come sappiamo. A Radio Bari, in via Putignani, le truppe americane avevano lasciato il posto, lo studiolo era vuoto di arredi e di cose e pieno di voci e di melodie, c’erano Latilla e Durano eppoi Silvio Noto.
Dopo i soliti lavori di paese, garzone di macellaio, fattorino delle poste, lasciò in fretta la Puglia per andarsene a Milano e a Roma, trovando qui una stanza da un’ex cantante lirica affittacamere in via Veneto, insieme con un direttore d’orchestra assai malato. Furono serate in night club, Cigliano, Buscaglione, Martino, roba bella, italiana e Colino tornato Nicola proponeva un broccolino napoletano, divertente e divertito. Il brutto piaceva, al punto che Monicelli lo volle ne La Grande Guerra: «Non era roba per me, al primo giorno di riprese il Maestro esclamò: “Da pagina Novantacinque!”. E io mi domandai: “E nelle altre novantaquattro che abbiamo fatto?”».
Nel film grandioso, con Gassman e Sordi, Arigliano interpretò un corista: «Perfetto perdente monicelliano» secondo taglio e cucitura, professorale e perfido, di Tatti Sanguinetti. Il tipo dal naso improbabile sbarcò a Carosello, la scenetta pubblicitaria diventò un cult, nella gag Arigliano scommetteva su tutto con gli amici, «io non discuto, scommetto!» e, puntualmente, pagava la cena. Per rimediare all’acidità di stomaco postprandiale, Nicola estraeva il digestivo, portava la mano sullo stomaco, aaaaAntonetto «è tanto comodo che si può prendere anche in tram» e saliva sul medesimo già in corsa.
Scherzi di un tempo, la musica restò seria, i riconoscimenti anche, Sanremo a ottantadue anni interpretando Colpevole, come se non fosse mai passato il tempo per la sua voce, il premio Tenco, raccolte nostalgiche e infine l’esilio
malinconico di Calmiera. Di colpo, in una notte di primavera salentina, si è fermato il cuore di Nicola.Bindi e Calabrese scrissero, lui cantava: «..., salutiamoci, arrivederci, forse sarà l’addio ma non pensiamoci...».
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