Nietzsche, Giametta dà fuoco alle polveri

Desiderio inesaudito, pericolo sventato. «Amerei incontrare un filosofo come Nietzsche in qualche luogo, in un treno o su un piroscafo, e trascorrere l’intera notte a parlare con lui», scriveva Anton Cechov in una lettera del 1900. «Anch’io lo vorrei, amico mio!», aggiungeva Katherine Mansfield nel suo diario del 1920. Avessero guardato più da vicino e dalla giusta angolazione il loro compagno di viaggio, la notte trascorsa con lui sarebbe parsa a entrambi, peggio che insonne, incerta di condurli mai a destinazione. Perché, una volta preso a bordo Nietzsche, ovvero Il pensiero come dinamite - secondo la provocazione, esplosiva come una detonazione di Sossio Giametta (BUR, pagg. 264, euro 9,60) - la tacita certezza di essere in salvo sul vagone in corsa o sul ponte di prua poteva saltare per aria da un momento all’altro e andare in fumo insieme alle ore di meritato riposo del viaggiatore.
Pensatore riposante, o rassicurante, Friedrich Nietzsche non è stato mai, né mai ha voluto essere. E non sarà per esorcizzare o disinnescare la sua carica dinamitarda che Giametta, da anni suo studioso e traduttore, torna a rigirarsi il pericoloso ordigno tra le mani. A guardarlo dritto negli occhi da una distanza ravvicinata. A spiarlo guardingo con il - quanto mai nietzscheano - «sguardo di lato»: quello che ritorce il cono visivo, salta via dall’ombra per ripiombarci sopra e aggira l’angolo di prospettiva.
Così, con tutte le cautele del caso, stando seduto su un posto riservato di tutto privilegio, Giametta segue la traccia dell’opera di Nietzsche per coglierne sistematicamente la varietà prospettica - quale doveva essere per il filosofo dell’interpretazione - delle sfaccettature. E ne mette in luce, ne fa brillare - come bomba inesplosa, sempre lì pronta a scoppiare - tutto il potenziale distruttivo e nichilista. Procede da esperto geniere, passando in rassegna gli scritti compresi tra La gaia scienza ed Ecce homo. Tra l’operina gioiosa, serena, pervasa anche oltre il titolo da «un tono e una luce» di gaiezza quanto dalla consapevolezza che «non c’è nulla che all’indomani non possa essere rovesciato», e l’estrema, autobiografica esibizione di sé, subito smentita sulla prima pagina dalla presentazione: «Io non sono un uomo, sono dinamite». E poi corretta con la spiegazione: «Io sono l’uomo di gran lunga più terribile che sia mai esistito». Non proprio uno con cui si vorrebbe mettersi in viaggio per terra o per mare. Anche se un’affidabile, sincera lealtà gli va riconosciuta. Fino a un attimo prima di crollare e inabissarsi da solo nella follia, rispetto alla propria annientante volontà di potenza il filosofo mantenne una salda inattaccabile coerenza. Incontestabile a chi trasvaluta tutti i valori e sbugiarda la morale indagandone la genealogia. Tenta gli idoli, li ausculta al crepuscolo e poi li abbatte a colpi di martello. Rovescia le maschere, ribalta l’ordine (e la forma) dell’arte (o della storia) per farle girare in eterno ritorno al passo di danza di Zarathustra. Mette da parte, «con sommo rispetto, il nome di Eraclito» e butta nel flusso travolgente del suo divenire assoluto tutti i filosofi dell’essere: i mostri sacri che, prima e dopo Socrate («era brutto, un monstrum»), edificarono e consolidarono la metafisica. Si pone «contra Wagner», «Anticristo», Al di là del bene e del male per decretare la morte di Dio.
Ma nemmeno quest’ultima, la più tremenda, va presa come una sentenza inappellabile. Il gesto più imprudente che si possa compiere maneggiando il pensiero di Nietzsche è, avverte Giametta, quello di sottrarlo alla sua energia caustica, conflagrante, annichilente per metterlo in uno schema di «cattiva sistematicità». Di prenderne la scrittura cangiante e gli aforismi mutevoli («Ogni volta che lo si legge appare diverso», ricorda puntualmente l’autore citando Giorgio Colli) per oro colato, «come filosofemi», o come principi di dottrina.

È quanto accadde, per una beffa al suo «genio della verità», alla «sua sedicente libera creazione», allorché il verbo nietzscheano «divenne il cuore della conservazione reazionaria, destinata a precipitare fatalmente nel nazionalsocialismo».

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