Il «no» preventivo

Oscar Luigi Scalfaro, dall'alto dell'autorità morale derivatagli dalla prova d'imparzialità fornita in occasione dell'elezione del Presidente del Senato, ha chiesto che si eviti di trasformare il referendum in una rivincita elettorale. Nobile esortazione. Se non fosse che l'ex Presidente occulta così il suo proposito di conseguire una vittoria ideologica, prescindendo dal merito del referendum. Non è il solo nelle file della nuova maggioranza. Romano Prodi il 25 aprile ha affermato senza giri di parole che il referendum del 24 e 25 giugno sarà l'occasione per chiudere definitivamente i conti con il centrodestra. Con un colpo solo potrà legittimare «la vittoria risicata» e affermare l'intangibilità della Costituzione del 1948. Dopo l'elezione di Giorgio Napolitano al Colle, si profila una ghiotta occasione per riunificare ciò che, a suo avviso, la guerra fredda aveva artificialmente diviso: le tradizioni politiche del cattolicesimo sociale e del comunismo nostrano che, secondo una vulgata a dire il vero un po' consunta, starebbero alla base del patto costituzionale da difendere contro la barbarie di nuovi boulangisti. Andrea Manzella, d'altra parte, ha provveduto a mettere nero su bianco: la proposta di riforma costituzionale del centrodestra è un progetto eversivo che tiene in sospensione la Costituzione repubblicana. Essa celerebbe la trasposizione in chiave costituzionale delle tesi revisioniste e negazioniste sull'origine della Repubblica e della Costituzione. Accuse gravi che meriterebbero di essere spiegate. Anche perché una cosa è la storia del periodo che va dall'8 settembre 1943 al 18 aprile 1948, altra cosa sono i miti che, con riferimento a fatti specifici avvenuti in quelle temperie storiche, sono stati legittimamente costruiti. Si vorrebbe perciò comprendere se il revisionismo stigmatizzato con tanto fervore sia riferito ai fatti oppure ai miti.
Ce n’è abbastanza per sostenere che la campagna del centrosinistra intende contestare la legittimità democratica del centrodestra. L’Unione, cioè, sostiene che la Costituzione è immodificabile da quanti non sono gli eredi di quelle forze che a suo tempo la scrissero. E dunque qualsiasi proposta provenga dal centrodestra è irricevibile.
Queste tentazioni stanno prevalendo a sinistra e segnano la sconfitta dei riformisti. Le lancette dell'orologio istituzionale stanno tornando indietro: viene travolto il 1994 con i suoi effetti bipolari, ma anche la stagione craxiana con la difficile ricerca di un superamento di quella Repubblica dei partiti entrata in crisi nel 1979.
Si potrà contrapporre, a questo ragionamento, un problema di metodo a priori. Si potrebbe sostenere: una riforma costituzionale di tale ampiezza non può essere scritta da una sola parte e, fosse pure solo per questo, va rigettata. Per confutare questa tesi non mi appellerò al precedente del titolo V e alla risicata maggioranza che lo approvò quando l'arbitro aveva già in bocca il fischietto per rimandare tutti negli spogliatoi: sarebbe troppo facile. E non ricorderò neppure i tentativi almeno di una parte del centrodestra per coinvolgere il centrosinistra. Preferisco, piuttosto, sostenere che anche se una proposta giunge per una via inopportuna, questo non significa che i suoi contenuti siano inaccettabili o scandalosi. È possibile, cioè, confermare un rifiuto metodologico ma convenire sull'urgenza di un provvedimento e aprire una discussione seria nel merito. In termini più espliciti, a quanti legittimamente dubitano su alcune parti della riforma non si chiede di «convertirsi» ad essa per ragion politica, ma gli si domanda di opporsi alla campagna di demonizzazione che, se perpetrata, finirà per travolgere anche le loro buone ragioni.
In che modo ciò può avvenire? Ammettendo che una modifica profonda della Costituzione del 1948 non solo è legittima ma è anche necessaria. E poi accettando di confrontarsi nel merito del referendum. Quest'ultimo è senz'altro il terreno più difficile. Se sopravvivesse un po' di onestà intellettuale, però, si dovrebbe ammettere che i tre bersagli individuati dalla riforma del centrodestra - razionalizzazione del titolo V, premierato e fine del bicameralismo perfetto - sono quelli giusti. Nel concreto delle proposte, ovviamente, i distinguo sono non solo legittimi ma obbligatori.
Anche in questo caso, però, sarebbe importante sottrarsi alla tentazione dello slogan facile. Al fine di assicurarsi il consenso massiccio del Sud e mettere così in cassaforte il risultato referendario, questa riforma è stata fatta passare sotto la formula di «devolution»: per la propaganda, poco meno della secessione. Non è così. L'esigenza di riformare il titolo V è stata infatti riconosciuta da più parti, centrosinistra compreso. La riforma del 2001, infatti, ha trasferito poteri legislativi in eccesso alle Regioni non consentendo più allo Stato, privato di competenze, di utilizzare il proprio potere legislativo attraverso una clausola di flessibilità, per ragioni di interesse nazionale e per fini che superano la ristretta prospettiva regionale. Essa, inoltre, non ha neanche previsto un luogo parlamentare nazionale nel quale dare la voce alle autonomie e che possa perciò fungere da camera di compensazione tra Stato e Regioni. Così, da un lato le Regioni hanno preteso di legiferare nelle materie loro affidate; dall'altro lo Stato ha inteso continuare ad intervenire con legge su questioni centrali per l'indirizzo politico generale e per tutelare istanze unitarie nel Paese. Ne sono seguiti interminabili e numerosissimi conflitti che hanno ingolfato la Corte costituzionale e messo in crisi la certezza del diritto.
I ritocchi del titolo V previsti dalla riforma, complessivamente, colgono nel segno: nella sostanza sono state ridotte le materie regionali, specie nello sterminato elenco riguardante la legislazione concorrente ed è stata inserita nell'art. 120 della Costituzione una clausola che permette allo Stato di intervenire quando è in gioco l’interesse nazionale. In questo contesto la cosiddetta devolution diventa un aspetto che, per un verso, è marginale per oggetto e contenuti e, per altro verso, non compromette affatto l’unità nazionale. Il federalismo fiscale, inoltre, non è certo lo spauracchio agitato dalla sinistra. Basti ricordare che già il testo di riforma del 2001 ne aveva previsto il varo attraverso l'approvazione di una legge ordinaria a maggioranza assoluta.
I poteri del Presidente del Consiglio sono stati rafforzati secondo il modello del Premierato, e su ciò pochi hanno avuto da ridire. Resta un'anomalia nella cosiddetta norma anti-ribaltone per la quale basterebbe cambiare la maggioranza, anche di pochi senatori, per provocare lo scioglimento. Essa rappresenta un'esigenza di moralità politica assai diffusa, visto che l'onorevole Fassino ha inteso affermarla persino nel programma di settennato del suo candidato (mancato) alla Presidenza della Repubblica. Ma questa esigenza non può tradursi in rigidità da codice civile. Va individuata una formula più generica, flessibile e per questo in grado di armonizzare le ragioni dell'etica con quelle delle istituzioni.
Sul terzo punto si pone il vero problema: il Senato federale. La riforma avrebbe potuto e dovuto completarsi con la previsione del luogo parlamentare nel quale dare spazio alle autonomie: un Bundesrat all'italiana. Ma la scelta, inevitabile, di togliere la fiducia al Senato la si è dovuta in qualche modo compensare per ottenere che la stessa Camera Alta votasse la riforma. Ne è venuta fuori una stranissima seconda Camera la quale, pur non essendo vincolata dal rapporto fiduciario con il governo, mantiene la competenza su una serie di leggi, anche importanti. Una sorta di divisione della materia legislativa tra due Camere, entrambe così «politiche», perché entrambe aventi potere decisionale finale. La ciliegina sulla torta è il rinvio della soluzione dei conflitti tra l'una e l'altra Camera, davanti al Presidente della Repubblica, il quale diviene arbitro in questioni che concernono l'indirizzo politico e il programma di Governo. Ma così il Quirinale perde il suo ruolo super partes. Su questi aspetti occorrerà dunque una correzione. Una difesa ad oltranza sarebbe insostenibile.
Prendere posizione per il Sì non equivale, dunque, a chiudere gli occhi. Significa, piuttosto, fare una scelta tra l'esistente e quanto, invece, potrebbe mettersi in moto con la riforma. Significa, soprattutto, sconfiggere la campagna di disinformazione per stabilire un piano di confronto aperto e rifiutare la pregiudiziale ideologica attraverso la quale si tenderebbe a stabilire un potere costituente a sovranità limitata perché esclude in partenza il centrodestra. Io sono convinto che sia più facile giungere a un sistema politico condiviso attraverso il prevalere del Sì al referendum e una successiva correzione di alcune parti della riforma concordate in Parlamento. E che, su questa linea, sia possibile ricevere il consenso dei vertici della Casa delle Libertà. I riformisti del centrosinistra ritengono, invece, che lo stesso obbiettivo possa raggiungersi più facilmente attraverso la vittoria dei No. Ma non dicono una parola su come convincere Prodi, Scalfaro e il professor Sartori ad abbandonare la linea della delegittimazione preventiva.

Ieri Sartori è stato esplicito: chi su questi temi dialoga con il centrodestra è un nemico. I riformisti del centrosinistra riflettano. A questo punto è chiaro che la vittoria del No sarebbe, loro malgrado, la tomba di ogni possibile riforma.

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