Le quasi 600 pagine e venti ore di lettura de Il nome della rosa di Umberto Eco diventano un grand-opéra con ventuno personaggi, triplo coro, due atti, ciascuno costituito da 12 scene (un omaggio al Clavicembalo ben temperato di Bach?), per un totale di tre ore di musica pubblicata da Casa Ricordi. È questo il titolo che il Teatro alla Scala ha commissionato al compositore Francesco Filidei su doppio libretto, in italiano di Stefano Busellato e in francese di Joël Pommerat, dall'omonimo romanzo nell'edizione de La nave di Teseo. Impresa condivisa con l'Opéra National de Paris e il Carlo Felice di Genova.
L'opera andrà in scena firmata dal regista italiano del momento, Damiano Michieletto, con Ingo Metzmacher sul podio. L'appuntamento è per l'aprile del 2025. «Verrà presentata oltre il mio mandato. Come avete letto dai giornali, sono vecchio ormai», è la stoccata del sovrintendente scaligero Dominique Meyer, la cui carica decadrà fra meno di due anni allo scoccare del settantesimo compleanno (così secondo il Decreto appena sfornato). Meyer e il coordinatore artistico, l'altoatesino André Comploi, lavorano al progetto dall'alba del 2020. Primo tassello: la ricerca di un compositore esperto di opera lirica e mai rappresentato alla Scala, scelta caduta su Filidei (classe 1973), musicista eseguito e ri-eseguito nei festival e teatri che contano. Secondo tassello: su che soggetto puntare? L'idea de Il nome della rosa è venuta a Filidei: «Sono organista, dunque in confidenza con il repertorio religioso. Poi sono stato chierichetto a Pisa laddove Adso e Guglielmo si incontrano». Ma al di là delle ragioni personali, ha spiegato Filidei che quello di Eco è un romanzo che si presta a diventare melodramma. E la mente va all'operazione, che si commenta da sola, promossa dal Festival Donizetti che nell'anno di Bergamo-Brescia Capitale della Cultura ha commissionato un'opera su Raffaella Carrà.
Il lavoro di Filidei rispecchia la classica presenza di forme chiuse, alternando arie e recitativi. Un esempio. «Adso e Guglielmo si muovono nell'abbazia, ci sono stati delitti, e così schiacciano il pulsante sui monaci che cantando spiegando cosa hanno visto e cosa sanno, e ognuno lo fa con la propria attitudine. Sono arie che possono restare nella testa dello spettatore», aggiunge, lasciando intendere che non sarà musica di concetto. Perché «non vogliamo vivere nella noia di una musica contemporanea definita solo interessante. Un pezzo deve affascinare, conquistare il pubblico.
Dobbiamo tornare all'origine dell'opera: mettere in musica gli affetti e tramite l'emozione provocare emozione», dice Meyer che a oggi per la Scala ha commissionato le prime assolute di Madina, Piccolo principe, Anna A.
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