«Non c’è giustizia, la mia sentenza è già scritta»

Ogni 28 minuti cade la linea: «Continuano a spiarmi alla ricerca di una prova che non c’è»

Stefano Zurlo

da Milano

L’intervista corre sul telefono. Puntualmente ogni 28 minuti la conversazione s’interrompe. Di botto. «Si vede - afferma rassegnata Anna Maria Franzoni - che qualcuno deve girare la cassetta».
Perché, l’intercettano ancora?
«Dal 30 gennaio 2002 la mia vita viene passata al setaccio minuziosamente, millimetricamente, continuamente. Tentano in tutti i modi di trovare la prova che non c’è. Mi creda, è difficile andare avanti, crescere i figli mostrando una serenità che non c’è più».
Parla di intercettazioni Anna Maria Franzoni proprio nel giorno in cui alla trasmissione Kosmos di Canale 5 rivelano l’esistenza di nuove registrazioni. Ci sarebbe lei che chiede se sono stati sequestrati oggetti in casa, che vuol sapere se un pentolino di rame è ancora al suo posto (proprio un pentolino di rame si ipotizzò potesse essere l’arma che uccise Samuele), che insiste nel sapere che cosa i carabinieri hanno sequestrato. Via ancora, dunque, col balletto delle intercettazioni che vengono sezionate e analizzate per dare un appiglio all’accusa.
La signora Franzoni è nella sua casa sull’Appennino bolognese, il marito Stefano è in giro per lavoro. L’ultima udienza a Torino ha portato poche novità, accolte con cupo scetticismo e indignazione dalla mamma di Samuele. Alcuni luminari studieranno l’elettroencefalogramma e la risonanza magnetica encefalica effettuati da Anna Maria la scorsa estate: «Capisce, io mi sono sottoposta a quegli esami per dimostrare che sono sana. E i test lo confermano: Anna Maria Franzoni è a posto con la testa. Ma non importa, scava scava, si cerca il granello che possa inceppare il meccanismo difensivo. Adesso, se ho capito bene, l’ultima frontiera è l’epilessia. Sta a vedere che la Franzoni era malata di epilessia e se è così c’è un buco nella sua coscienza e in quel buco si può collocare il delitto».
Signora Franzoni, perché non ha accettato la perizia psichiatrica?
«Sta scherzando? Io avevo già subito la prima perizia che peraltro aveva confermato la mia piena integrità mentale. E loro, che fanno? Ne ordinano un’altra per mettersi a posto, per non far franare tutto l’edificio costruito dall’accusa. Lei non può immaginare che umiliazione sia la perizia psichiatrica. È una ferita dentro di me: mettere in dubbio le mie facoltà mentali, provare a farmi passare per pazza».
In verità, la perizia che verrà discussa a novembre ipotizza un vizio parziale di mente: stato crepuscolare, chiamano la sua patologia.
«Mah, si dice io avrei avuto una qualche inafferrabile patologia, naturalmente nel passato. E questo malessere potrebbe aver provocato un raptus. È tutta una catena di potrebbe, di forse, di ipotesi che si avvitano l’una sull’altra. Eh no, io sono una mamma che ha perso un figlio e l’ha perso in quel modo terribile. Avrò pure io il diritto alla giustizia, oppure no? No, no, ormai sono avvilita, delusa, sconcertata. Quando penso al Palazzo di giustizia, dico che potrebbero pure toglierla quella scritta. La giustizia, almeno per me, non esiste».
Signora, chissà quante volte ha ripensato a quella mattina del 30 gennaio 2002.
«Sono bastati otto minuti, otto minuti dalle 8.16 alle 8.24, per sradicare come fuscelli le nostre esistenze».
Aspetti, torniamo indietro alle 5 del mattino.
«Stavo male».
Un attacco d’ansia?
«Ansia? Io l’ansia l’ho conosciuta dopo quella mattina, prima non sapevo nemmeno cosa fosse».
Era depressa?
«Mai stata depressa. Ero una persona felice. Si può dire così o è vietato pure questo?»
Andiamo avanti.
«Ho chiesto a mio marito di chiamare il medico: avevo un blocco allo stomaco. La dottoressa è venuta e ha diagnosticato uno stato influenzale. Tutto qua».
Dicono che lei non abbia collaborato con la dottoressa.
«La dottoressa ha smentito. Qui tutti parlano senza avere titolo. Verso le sette e mezzo Stefano mi ha detto: “Vuoi che rimanga?” Io mi sentivo meglio, anche se ero debolina. “Ma no, vai pure”. È uscito, mi sono alzata, ho preparato Davide».
Poi?
«Ho sistemato Samuele nel lettone. Se non l’avessi fatto, sono convinta che si sarebbe salvato».
Perché?
«Perché chi l’ha ucciso non pensava di incontrarlo. Chi l’ha ucciso era uno che mi spiava».
Chi? Un vicino?
«Faccia lei. Intorno ci sono pochissime case, non c’è molta scelta. Ma non tocca a me puntare il dito contro qualcuno».
Per la verità la sua famiglia aveva presentato il 30 luglio 2004 una denuncia contro Ulisse Guichardaz.
«Io non accuso nessuno, ho già sofferto abbastanza. Ripeto, qualcuno ha atteso che uscissi, è entrato in casa, si è precipitato in camera mia».
In attesa del suo rientro? Forse era un suo spasimante?
«No, non credo. Non ho la più pallida idea delle motivazioni di questo signore, se avessi avuto qualche sospetto, avrei preso le mie precauzioni. Invece niente, ho lasciato Samuele solo e ho lasciato la porta aperta. Sa, in paese ci si conosceva tutti, non c’erano pericoli. Sono uscita alle 8.15 o 8.16 e sono tornata indietro alle 8.24. A quel punto il disastro era già avvenuto».
Secondo lei, com’è andata?
«Samuele deve aver visto un estraneo, si è spaventato, ha cominciato a strillare. Quello ha perso la testa, ma non posso pensare che fosse arrivato già con il proposito di uccidere Samuele. Questo non posso crederlo. Io prego tutti i giorni che l’assassino crolli e confessi. Lo spero ogni mattina che Dio manda in terra. Io so una cosa sola: io, io non sono stata».
Quella mattina lei avrebbe detto a suo marito: «Mi aiuti a fare un altro figlio?»
«Io quella frase non l’ho detta né pensata. Certo, ero fuori di me, ma io non me la ricordo, mio marito non se la ricorda, i presenti non se la ricordano. Tutti tranne quel carabiniere».
Alcuni testimoni hanno descritto la sua freddezza in quegli attimi concitati.
«Falso, i più hanno raccontato la mia agitazione, la mia sofferenza, la mia angoscia».
Perché non è salita sull’elicottero con suo figlio?
«Due persone mi hanno tirato giù di peso. Mi si accredita comunque il cliché della mamma gelida, distaccata, insensibile. Ogni bufala è buona, hanno detto di tutto: perfino che sarei andata dal parrucchiere il giorno del funerale di mio figlio. Ma come si fa a scrivere sui giornali una simile fandonia? Si attaccano a tutto: a spezzoni delle interviste che ho dato, forse sbagliando per eccesso ma sempre in buonafede. Hanno ritagliato frammenti dei fuorionda per trovare un’espressione fuori posto, non composta, sgradevole. Quest’estate, dopo quattro anni, ho portato i figli in vacanza per tentare di ritrovare un equilibrio. Puntualmente ecco le foto, ecco l’immagine della mamma che si diverte alle spalle del figlio morto. E poi, lo so, serpeggiano le voci: ha venduto quelle foto, ha chiesto e avuto soldi. È un meccanismo infernale, inarrestabile, che mi sovrasta».
Che idea si è fatta dell’indagine?
«L’hanno fatta con i piedi. Dovevano sigillare la frazione di Montroz. L’assassino doveva per forza nascondersi fra quelle case, invece hanno preso subito la scorciatoia che porta alla mamma di Samuele. E da lì non si sono più allontanati. Ma attenzione, a una verifica attenta tutti gli elementi di prova raccolti contro di me sono crollati. In compenso c’è una macchia, davanti alla porta principale di casa, e quella macchia è sangue di Samuele e quella macchia indica una via di fuga e qualcuno prima o poi dovrà prenderla in considerazione».
L’arma del delitto?
«Ma io non ci capisco più niente. È un ferro da stiro? O un pentolino o forse un mestolo? Continuano a cambiare idea, la mia casa è a loro disposizione. Da sempre».
Lei potrebbe aver fatto sparire l’arma.
«Io non ho fatto sparire niente. Io ricordo solo che quel giorno doveva essere un giorno come tutti gli altri. Invece hanno costruito un film che suona così: Annamaria Franzoni ha fatto a pezzi un figlio e a distanza di cinque minuti ha portato l’altro figlio allo scuolabus. Pazzesco».
A Natale potrebbe esserci la sentenza d’appello. In primo grado lei è stata condannata a trent’anni. Ora cosa si aspetta?
«Io non mi aspetto più nulla. La corte si annoia, letteralmente, in attesa del verdetto.

Del resto se già alla prima udienza si dispone la perizia psichiatrica, allora l’orientamento di fondo è chiaro. Ma io non sono disposta a compromessi, io non voglio mezze soluzioni umanitarie. Piuttosto se sono convinti che sono stata io, abbiano il coraggio di condannarmi. E di mandarmi in prigione».

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