«Non guardate agli Usa Le novità sono in Europa»

Succede, jazzofilo di lungo corso, di ripensare ai tempi d’oro della musica preferita. Erano tempi in cui nel jazz americano si presentavano quasi ogni anno musicisti nuovi, e il loro contributo creava uno stile inedito, o modificava quello che andava per la maggiore. Prendiamo un anno importante, il 1950. C’è euforia per la guerra finita, l’America offre il jazz moderno di Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Miles Davis. In Italia dopo Louis Armstrong arriva Duke Ellington. Suona a Milano, al concerto assistono i critici della musica accademica. Uno di loro, l’indimenticabile Giulio Confalonieri, dice: «Questa è l’unica musica che rimarrà del nostro secolo». Sono i jazzofili più acculturati, a questo punto, che obiettano ricordandogli la Verklarte Nacht di Schonberg, Le Sacre du Printemps di Stravinskij, i Quartetti di Bartòk. Niente, Confalonieri non demorde. Esclama: «Vi rendete conto? Questi qui, ogni nota che suonano, anzi che improvvisano, fanno qualcosa che prima non è mai stato fatto da altri». Vero. E in quel momento stavano per arrivare i «nuovi suoni» di Gerry Mulligan, Chet Baker, e più avanti di Ornette Coleman, Cecil Taylor, John Coltrane…
E adesso? Fra i cd di jazz nei negozi, molti non meritano nemmeno un ascolto distratto. Nel jazz americano, maestri come quelli citati non ce ne sono più. Il pianista Keith Jarrett ha 65 anni e i suoi intollerabili capricci d’artista celano una sostanziale stanchezza. Il trombettista Wynton Marsalis è un grande tecnico passatista. Una menzione di merito spetta ai chitarristi Pat Metheny e Stanley Jordan, al sassofonista Joshua Redman e ai pianisti Brad Mehldau e Vijay Iyer. Bastano? O Confalonieri aveva ragione?
In un certo senso sì. Nel 1988 è uscito in Germania l’eccellente librone Jazz, musica del ventesimo secolo che aveva il sapore di un epicedio. Due anni fa, una magnifica mostra multimediale con lo stesso titolo vista a Rovereto e a Parigi è sembrata qualcosa di simile. Eppure, sostengono gli esperti più tenaci trainati da un libro dell’inglese Stuart Nicholson, il jazz non è morto. Ha solo scelto altre abitazioni: l’Europa prima di tutto, ma anche il Giappone. A parte i festival estivi, per cui può sembrare che addirittura l'Italia sia la nuova casa della musica afroamericana, limitiamoci ai musicisti.

Ricordiamo come precursore il chitarrista Django Reinhardt, e poi il trombonista Albert Mangelsdorff, il sassofonista John Surman, i pianisti Martial Solal, Stefano Battaglia, Stefano Bollani, i trombettisti Enrico Rava e Paolo Fresu, il contrabbassista Yuri Goloubev. Bastano e avanzano per dichiarare, con Nicholson, che «jazz has moved to a new address».

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