Non si gioca a dadi con la fede

È proprio vero: «niente di nuovo sotto il sole»! Mentre indagini e inchieste di ogni tipo ci fanno sapere che gli italiani (ma non solo loro) sono sempre più divorati dalla febbre del gioco (va tutto bene: dal superenalotto al gratta e vinci, dalle scommesse alle slot machine, fino alle semitruffe via internet), le Edizioni Dehoniane di Bologna mandano in libreria un’opera intitolata Il gioco dei dadi (pagg. 148, euro 15), con la quale l’autore - forse un vescovo africano della seconda metà del III secolo, a lungo erroneamente identificato col celebre apologeta cartaginese Cipriano - condanna in modo chiaro e inequivocabile il gioco d’azzardo.
Il testo si presenta con i caratteri di un’omelia che si apre con l’annuncio del tema centrale, appunto la condanna del gioco dei dadi (il titolo originale latino suona De aleatoribus o Ad aleatores, e l’aleator è colui che gioca ai dadi e, più in generale, colui che gioca d’azzardo). Dall’insistenza con la quale l’autore richiama le gravi responsabilità dei vescovi riguardo al problema trattato, qualcuno ha dedotto che egli abbia di mira anche qualche prelato caduto preda del demone del gioco. Alla sezione iniziale del testo, che occupa quattro capitoli, segue una parte più ampia nella quale vengono esposte numerose argomentazioni storico-razionali e varie riflessioni ricavate da autorevoli testimonianze, tutte decisamente contrarie alla pratica del gioco.
Trascorrere il proprio tempo al tavolo ove si gettano i dadi viene considerato un peccato gravissimo, un gesto di autentica ingratitudine nei confronti di Dio, indegno di un buon cristiano. Il gioco d’azzardo è visto come un frutto perverso dell’azione ingannatrice del diavolo che attraverso di esso spinge gli uomini verso l’idolatria, la quale - non va dimenticato - era giudicata il più grave peccato di cui potesse macchiarsi un fedele, che, incorrendo in esso, trasgrediva il primo dei dieci comandamenti divini. Costanti sono i riferimenti alla Sacra Scrittura, che l’autore cita ripetutamente a sostegno delle proprie tesi; egli, tuttavia, non si affida soltanto alla Bibbia e fa pure ricorso a valutazioni puramente razionali, mediante le quali tende a dimostrare che la passione per il gioco dei dadi è causa di rovina sociale e di dissesto economico e assomiglia a una vera e propria malattia. Lo scritto si conclude con una appassionata peroratio, ovvero con un’incalzante esortazione affinché i cristiani non si lascino sedurre dal gioco. Per coloro che non hanno saputo resistere, l’autore indica una sola via d’uscita: imitare Cristo, mettendosi al servizio dei poveri e delle vedove, praticare la carità evangelica e la condivisione dei beni con i più bisognosi.
È opportuno ricordare che anche al di fuori della Chiesa il gioco d’azzardo era guardato con grandissimo sospetto: nella società romana - fin dall’età repubblicana - il gioco dei dadi era ammesso soltanto durante i Saturnalia, festa del rovesciamento dei ruoli e della trasgressione; e scrittori come Plauto e Giovenale lo giudicano negativamente. A questa riprovazione, l’autore cristiano aggiunge motivazioni nuove: il gioco d’azzardo è peccato perché non incoraggia la fiducia nella divina provvidenza e non spinge alla carità; spesso, inoltre, è causa di bestemmie, di litigi e di divisioni.

Il cristiano che si siede al tavolo da gioco rischia di perdere l’anima e le sue mani si insozzano, mentre a ben altro esse sono destinate, come si legge nell’esortazione con cui si conclude l’opera: «Stendi a Cristo mani pure perché tu possa meritarti il Signore».

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