La chiara vittoria del Pdl alle elezioni amministrative (impreziosita nella notte dalla «resa» di Bologna, dove la sinistra è costretta al ballottaggio) deve essere per il centrodestra motivo di soddisfazione, ma non può trasformarsi nel paravento dietro il quale nascondere le altre votazioni, quelle per le europee. Dalle quali, come abbiamo scritto e riscritto, chi esce davvero sconfitto è il Pd, sia chiaro. Ma nelle quali è altrettanto innegabile che il Popolo della libertà abbia ottenuto un risultato nettamente inferiore alle attese, denunciando scricchiolii che è bene non passare sotto silenzio.
Si è parlato di effetto Noemi e di effetto Kakà. Opinabile. Sicuro, invece, è quanto è successo in Sicilia, dove le beghe interne hanno portato a un astensionismo record e a una «botta» quantificabile tra i 650mila e gli 800mila voti in meno. Questo è un fatto. E un altro fatto è che il partito in quanto tale si è visto poco o nulla, come hanno riconosciuto (dopo) molti esponenti del Pdl e come ha lamentato (anche durante) lo stesso premier. Berlusconi ha dovuto sostenere praticamente da solo una campagna elettorale tra le più dure e velenose che si ricordino. E, nel farlo, è a sua volta incappato in un paio di errori. Uno di comunicazione: tratto in inganno dai sondaggisti, ha alzato troppo la soglia della vittoria (40-45 per cento) dando il destro agli avversari di rappresentare una sostanziale tenuta come una sconfitta, il «voto percepito» di cui ha parlato ieri su queste pagine Michele Brambilla. Il secondo di sottovalutazione: ha derubricato la questione siciliana a fatto locale, rinviandone la soluzione a dopo il voto.
Ma quest’ultimo inciampo è figlio del «peccato originale»: lo hanno lasciato solo e di conseguenza tutti i problemi si sono riversati sulle sue spalle. Spalle ampie, come ben sappiamo. Ma pur sempre spalle umane. Assediato dai quattro lati, impegnato a governare e nello stesso tempo a ribattere colpo su colpo ad attacchi che arrivavano persino dall’estero, il premier ha dovuto giocoforza tralasciare qualche questione. E il risultato è stato il capolavoro di autolesionismo del centrodestra in salsa sicula.
Ora un po’ tutti, nel Pdl, riconoscono che così non va: non si può lasciare solo il capo in battaglia, per quanto straordinarie siano le sue doti di condottiero. Va affiancato da una struttura che lo aiuti. Il Popolo della libertà ha dato buona prova di sé alle amministrative, nonostante sia un neonato nel panorama politico italiano. L’integrazione tra due apparati così differenti tra loro come quelli di Forza Italia e An appare dunque avviata. Ora bisogna completare l’opera, rendere il Pdl più solido e intraprendente, una squadra in grado all’occorrenza di giocare la partita indipendentemente dal pur necessario acuto di qualche solista.
Quello che invece bisognerebbe evitare è che, in un partito vincente e saldamente al governo, si aprano dibattiti stile «chi siamo e dove vogliamo andare?», di esclusiva pertinenza di un centrosinistra allo sbando. Per intenderci, è perfettamente legittimo, stimolante e costruttivo che Gianfranco Fini, attraverso FareFuturo, faccia sapere che bisogna riorganizzare il partito. Un po’ più pericoloso appare sostenere che il mancato successo alle europee è attribuibile alla «esclusiva trazione nordista» del governo e che il Pdl deve smetterla di essere «la fotocopia del Carroccio». Non vorremmo infatti che, come qualche segnale lascia invece intuire, questa fosse la premessa per la formazione di una «corrente meridionalista» contrapposta alla presunta vocazione settentrionale del partito. Non lo vorremmo prima di tutto perché è un film che nel centrodestra si è già visto tra il 2001 e il 2005 e di cui gli spettatori, diciamo così, non sono esattamente rimasti entusiasti, tanto da renderlo noto sulle successive schede elettorali. Poi perché, come più volte ribadito da questo Giornale, anche il Nord ha legittime rivendicazioni e aspettative nei confronti dell’esecutivo. Infine perché trasformare i prossimi anni di legislatura in una specie di guerra agli alleati della Lega non pare proprio la più geniale e proficua delle idee.
I problemi ci sono, anche a causa di una profonda e prolungata crisi economica. Accontentare tutti è difficile. Ma il Paese ha bisogno di continuare a essere ben governato, ha bisogno di riforme, ha bisogno di infrastrutture. Ed è indiscutibile che per questo serva un Pdl forte, che eviti a tutti i costi di far prevalere una delle sue due anime territoriali a scapito dell’altra o di formare correntoni in perenne lotta tra di loro. Un partito che con la Lega collabori, senza farsi imporre l’agenda, sapendo dire dei no, ma anche senza timore di far suo quanto di buono propone l’alleato.
Al Nord funziona e i due partiti crescono entrambi sia in Lombardia sia in Veneto (dove addirittura il Pdl guadagna più del Carroccio). Forse, per dare un assetto più stabile al Popolo della libertà, è da qui che bisogna ripartire.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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