Mai banalizzare gli eroi della cultura pop. Intanto perché si rischia di passare per osservatori superficiali e distratti, in secondo luogo perché sempre più spesso dietro la costruzione di un fenomeno si nascondono interessanti digressioni nella cultura alta.
Ultima diva del nuovo secolo, Lady Gaga passa per essere una logica conseguenza di tempi (i nostri) in cui è veramente difficile inventarsi qualcosa di nuovo. C’è chi ne parla come di una clonazione malriuscita di Madonna, chi la accusa di scopiazzare qua e là, anche dalla sfortunata Lina Morgana, un’aspirante cantante suicidatasi a diciotto anni che la Germanotta, secondo le cronache, avrebbe frequentato assiduamente.
Polemiche ricorrenti quando c’è di mezzo un successo planetario. In verità Lady Gaga appartiene a quella casistica piuttosto diffusa nell’immaginario, che dal postmoderno arriva al presente, di un personaggio che cambia a seconda di come la leggi. Se le teenagers ne mutuano lo stile tamarro e inelegante, agli amanti dell’arte non sarà certo sfuggito il fatto che le sue mise, i video, le fotografie da copertina sono pieni zeppi di riferimenti all'universo del contemporaneo.
In effetti Lady Gaga appare come un’opera vivente, ultimo esempio di Body Art mediatica, deprivata dell’aspetto etico - la performance è stata per decenni la forma d’arte dove l’autore coincidendo con l’oggetto rappresentato si assume il carico di rapprsentazioni “forti”, spesso sofferenti - e limitata alla mera sfera dell’estetica, anzi dell’estetismo. Prendiamo ad esempio la recente cover di Vogue dove la soubrette è vestita appena di un bikini di bistecche di carne cruda. Si è gridato allo scandalo, al cattivo gusto, eppure quest’immagine, immortalata dallo scatto di Terry Richardson, il fotografo di moda più oltraggioso ed esplicito della scena americana, cita pressoché letteralmente un’opera dell’artista canadese Jana Sterbak, che nel 1987 indossò un abito di carne allo scopo di sottolineare i perversi rapporti tra potere e mercificazione del corpo. Intervento peraltro ripreso altre volte, dal macedone Robert Gligorov in un lavoro ottenuto con photoshop all’inizio degli anni ’90, e dalla cubana Tania Bruguera con una performance particolarmente drammatica e lacerante.
Nella produzione dei suoi videoclip, ormai concepiti come brevi corti dallo svolgimento narrativo complesso e in parte indipendente dal brano musicale, Lady Gaga si affida ad autentici specialisti del genere come Jonas Akerlund (per Telephone) e Steven Klein (lo scandaloso Alejandro); in Bad Romance, il cui regista Francis Lawrence ha vinto l’ultimo Mtv Music Awards, abbondano i riferimenti alle sculture e alle scenografie, costumi compresi, dell’artista americano Matthew Barney, in un ardito mix tra naturale e artificiale, carnale e cibernetico. Una figura così complessa e ambigua non poteva certo sfuggire all’occhio di Francesco Vezzoli, specializzato nell’utilizzare icone pop o camp bypassandole nell’universo artistico del glamour. Il geniale bresciano si è inventato di recente, per celebrare l’anniversario del MoCA di Los Angeles, un trailer per un musical immaginario (che ovviamente non avrà mai luogo) dove Lady Gaga è la protagonista.
Il video, che dura meno di quattro minuti ed è diretto ancora da Akerlund, inizia come un balletto russo tra Diaghilev e Njisinsky, riecheggiando la grafica suprematista del periodo. Formidabili, come sempre, le bocche di fuoco schierate da Vezzoli: gli abiti di Prada, il pianoforte dipinto da Damien Hirst, il cappello indossato da Lady Gaga disegnato da Frank Gehry, l’architetto del Guggenheim di Bilbao.
Un’esperienza del genere è servita alla Germanotta per vincere gli indugi e passare dall’altra parte, ovvero quella dell’artista. Il suo debutto ufficiale data lo scorso giugno, con la prima opera autografa esposta in uno degli spazi più cool di Londra, lo Show Studio.Com, la cui mente creativa è il fotografo Nick Knight. Si tratta nientemeno che di un esplicito omaggio a Marcel Duchamp, attraverso la rilettura del ready made per eccellenza, un orinatoio rovesciato nel quale la cantante scrive a pennarello: «I'm not fucking Duchamp but I love pissing with you». Il titolo dell’opera «Armitage Shanks» riprende il nome di una ditta inglese di sanitari e non è in vendita.
Basta dunque un gesto simbolico, in linea con lo sberleffo dadaista, per essere accettati nel mondo dell’arte? Sembrerebbe di sì, in ogni caso Lady Gaga dimostra di aver preso molto sul serio questa sua nuova passione, continuando a rivolgere lo sguardo al padre di tutti i più geniali provocatori.
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