Monasteri e memoria sono parole che vanno di pari passo. Se non ci fossero stati gli amanuensi benedettini sarebbe andato perduto un inestimabile patrimonio di testi antichi greci e latini, opere di poesia, filosofia, teatro, storia. Erano testi scritti da autori che non conoscevano il Dio cristiano e in gran parte non erano sacri né trattavano temi religiosi; eppure i monaci vi si applicarono per conservarli e trasmetterli ai posteri. Ancora oggi il recupero di mestieri, ricette, attività artigianali pesca nello stesso culto della memoria.
Esiste un legame forte tra monachesimo, memoria e tradizione. Come mai sono proprio i monasteri e i conventi a mantenere vive queste pratiche d'altri tempi? È solo un modo per sopravvivere o c'è un legame più profondo con la storia degli ordini religiosi? E qual è il rapporto tra la vocazione religiosa, staccata dal mondo, e la concretezza di un lavoro «per» il mondo, in modo da non dimenticare un pezzo di storia? Risponde padre Mariano Dell'Omo, benedettino, archivista di Montecassino, docente all'Università Gregoriana e storico del monachesimo. «L'origine del legame tra il monachesimo del nostro tempo e il compimento di certi lavori, come il restauro del libro o la pratica dell'erboristeria - spiega il religioso - sta in primo luogo nelle parole stesse di san Benedetto riportate da san Gregorio nel secondo libro dei Dialoghi, rivolte al monaco goto che aveva perduto il suo falcetto nel lago e lo recupera grazie a Benedetto: Labora et noli contristari. Lavora e conserva il tuo equilibrio interiore, vale a dire il senso delle proporzioni tra il fare e il dire, l'essere e l'avere, il volere e il potere».
Aggiunge padre Dell'Omo: «I libri, arca del sapere e della tradizione, così come le icone, simbolo dell'invisibile, o certe ricette a base di erbe per il recupero della salute fisica, riflettono la vocazione della civiltà monastica a servire e a recuperare l'uomo nella sua integralità, sempre a rischio, sempre fragile e sempre recuperabile. Cultura mentale (i libri), cultura interiore (il culto dell'immagine divina mediata dall'icona) e cultura fisica (la sanità esteriore come riflesso di un'integrità più profonda) rinviano all'ideale del monaco, cioè l'uomo recuperato a se stesso e quindi alla comunione con Dio, che ne è fonte e destino ultimo».
Per i monaci lavorare quindi al restauro dei libri antichi, alla realizzazione di icone o alla preparazione di erbe medicinali significa, secondo Dell'Omo, «contribuire a edificare nell'oggi una civiltà che certo è in pericolo, ma che può essere umilmente consolidata proprio dalla coscienza che, come scriveva papa Paolo VI nel breve Pacis nuntius (24 ottobre 1964: proclamazione di san Benedetto a patrono principale dell'intera Europa), con la croce cioè con la legge di Cristo, con il libro ossia con la cultura, e con l'aratro cioè con la coltivazione dei campi e con altre iniziative analoghe, il monachesimo specialmente benedettino nobilitò ed elevò la fatica umana.
Realizzare oggi certe iniziative di lavoro monastico è un modo per esprimere, anche solo indirettamente, l'identità più profonda dello stesso monachesimo e quindi un aspetto del carisma di san Benedetto nell'attualità».
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