IL NOVECENTO Tra grandi firme e piccole carriere

Dalla nascita della «terza pagina» al Sessantotto: il secolo visto da un’insolita prospettiva

Più che una presa di posizione, una scelta di stile. A margine (Sellerio 202 pp. 15 euro) Beppe Benvenuto non scende in campo in prudente retroguardia. Ci si tiene invece spericolatamente per puntare su fascismo e antifascismo, politica e cultura, giornalismo e letteratura. Obiettivi tanto più fatalmente mancati, persi di vista, quanto più nettamente contrapposti sul campo di tiro. Sul poligono allestito nel cuore del secolo breve dove, per tenere il polso di regime, guerra mondiale, guerra civile e registrarne i sintomatici contraccolpi nel dopoguerra freddo, prolungato fino all’Autunno Caldo, al Concilio, al Sessantotto, una mira di lunga gittata varrà più della miopia del mirino: buono, per definizione, a mettere a fuoco quel tanto che basta a premere il grilletto.
Sparate non ce n’è sulla smagliante rassegna di bersagli intitolati via via, come da indice, a Ugo Ojetti: «il principe dell’intrattenimento colto e vivace» regnante per un buon (e maiuscolo) Ventennio alla corte del Corsera. A Aldo Valori: «il fascista che non amava il regime» ma fu rimosso dall’incarico all’Eiar, e poi bocciato nella corsa al Senato, all’Accademia d’Italia, alla Camera dei fasci, alla direzione di via Solferino... più per l’animus da grande deluso, renitente a creare o crearsi illusioni, che per l’indomito spirito del dissidente. A Errico Malatesta: «forse l’unico rivoluzionario degno di questo nome che ha calcato lo Stivale dopo il 1860». E al «siciliano» Raniero Panieri, «l’eretico» Delio Cantimori. A quel «bel tipo» (Benvenuto non si stancherà di ripeterlo nel racconto appassionato che chiude il volume e la sfilata dei suoi protagonisti) di Enzo Ferrieri: Fuori gioco solo nel titolo delle poesie postume, in vita, invece, intento a portar dentro - lungimirante importatore - i grandi d’oltreconfine. A tradurre Joyce, Mann, Eliot, Proust. Ospitare a Milano i drammi di Wedekind. Promuovere studi e accogliere studiosi al centralissimo «Convegno» di via Borgospesso, più che un salotto, una vivace cittadella culturale racchiusa tra Montenapoleone e San Babila, un Quai Voltaire meneghino e anche meglio, se Paul Valéry approdandovi da Parigi notava: «Jamais la litérature a eté si bien logée».
Autori ed eroi sono messi lì, «a margine», come medaglioni intagliati. Lenti molate e curve sull’inclinazione che consente di guardarvi attraverso tutta un’epoca, piuttosto che uomini di paglia su cui una volta per tutte fare centro. Tra l'altro, da figure eccentriche più che discoste, eterodosse più che vincolate al piedistallo dell’ortodossia accademica o di partito, «marginali» rispetto ai fuochi di paglia e ai fuochi fatui dello star system del secolo, si prestano a un confronto all’arma bianca meglio che a un duello alla pistola. Lavora perciò di lama e di fioretto Benvenuto: un’opera da critico «malinconico» (già avvertito de La malinconia del critico, Sellerio 2005), storico del giornalismo (all’università di Palermo e allo Iulm di Milano), elzevirista (e autore della monografia su L’Elzeviro, Sellerio 2002). All’affondo tranchant preferisce il taglio di sbieco, in trasversale. L’allungo d’A margine: da una postazione più libera, non perciò disimpegnata, la più impegnativa anzi per il giudizio intellettuale meglio calibrato, fine, preciso. E non è inerme né innocuo se tiene - con garbo - in fil di spada una Cristina Campo: personaggio scottante, quanto meno per il fuoco «mistico», «il vulcano interiore» che le covava dentro. O piuttosto ne punzecchia e passa sullo spiedo la biografa, Cristina de Stefano che, abbagliata dal fervore della poetessa, scottata dal calor bianco attizzato dai suoi versi, lascia cadere nel silenzio, sotto Il (flauto e il) tappeto, o «nelle pieghe del potere culturale del Ventennio» in cui si era tanto ben sistemato papà Guido Guerrini, dettagli più scabrosi di quelli utili a dipingerne il ritratto soave in un «interno d’artista».
Sportivamente, per disincantato divertimento, Benvenuto va anche a pungere sul vivo, in punta di forchetta, le magagne nascoste nel «Gotha degli intellos anni Sessanta», «nel tempio e salotto buono dell’editoria nazionale». L’Einaudi che, a «Memorie editoriali» di Guido Davico Bonino, divulgava i Minima Moralia di T.W. Adorno e in sede notava l’immoralissima passione del suo autore «per ogni fondoschiena femminile che gli capitasse a tiro». O pubblicava gli Scritti seriosi di Lacan per scoprirlo, in privato, «virtuoso dell’istrionismo» e vero clown. Ma sono peccati veniali, piccoli nèi, quasi decorativi su «l’einaudismo senza macchia e senza paura».

Più vistoso (indecoroso?) il «malcelato antidefelicismo» che serpeggiava «nell'ambiente torinese razionalista e engagé»: tra gli editor chini sulla biografia del Duce e divorati perciò dai rimorsi. Poco male però. Il tarlo che turbava «le vigili coscienze degli uomini di via Biancamano» non intaccava minimamente il successo degli scritti di Renzo de Felice, «graditissimi e gettonati il libreria».

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