Le nuove colonie? Questa volta Israele vuole provocare

Netanyahu sa quanto è pericoloso lo scontro con l’America, ma in patria c’è chi lo sostiene. Anche se il ministro Barak potrebbe lasciare il governo

Questa sera in tutto il mondo ebraico si celebrerà il Seder, la cena pasquale in ricordo dell’uscita degli ebrei dalla schiavitù d’Egitto. Uno dei tre pellegrinaggi al Tempio di Gerusalemme, da sempre, questa festa della libertà (che simbolicamente obbliga a ripulire le case da ogni traccia di cibo lievitato o lievitabile) è in Palestina occasione di tensione politica. Lo si percepisce quest’anno a Gerusalemme anche per il fatto che la pasqua ebraica viene a ridosso di quella cattolica e ortodossa, con grande affluenza di pellegrini e in un momento di particolare apprensione e nervosismo politico. Accanto al timore di una ripresa di scontri a Gerusalemme (dove sono presenti ingenti forze di polizia) e sul confine di Gaza (dove nelle ultime 48 ore due militari israeliani, quattro palestinesi sono rimasti uccisi e sono riapparsi i carri armati) l’atmosfera dentro e fuori Il mondo politico si è surriscaldata. All’interno della coalizione israeliana si assiste alla corsa dei partiti religiosi e dei coloni a usare la festa e le sue connessioni emotive, religiose e storiche per accattivarsi le simpatie del pubblico con inviti a visitare località bibliche, spesso nelle zone ancora occupate, con dichiarazioni come quella che incita a considerare «temporanea» la presenza di moschee sulla spianata del Tempio di Gerusalemme o denuncia di ogni segno di compromesso sulla questione delle costruzioni a Gerusalemme est. Iniziative denunciate dagli arabi e viste da non pochi osservatori stranieri come provocazioni. Allo stesso tempo si riparla di crisi governativa. Una possibilità che paradossalmente non dispiacerebbe troppo al premier Netanyahu. Apprezzato in patria per la maniera in cui ha tenuto testa al leader americano Barack Obama sulla questione delle costruzioni e a Gerusalemme è cosciente dei pericoli che provocherebbe un prolungato scontro con Washington e che il presidente dello Stato, Shimon Peres, invita a evitare. Liberarsi di alcuni ministri indisciplinati e condizionati da faide interne di partito, sarebbe per lui un vantaggio. D’altra parte, il ministro della difesa Ehud Barak, leader del partito laburista e membro della coalizione, si sente sempre più a disagio nel restarci. Se decidesse di abbandonare il governo, una crisi così provocata favorirebbe l’entrata nella nuova coalizione del partito di opposizione Kadima (che freme per ritornare al potere ed è formato da ex membri del partito Likud di Netanyahu). Una evoluzione del genere aiuterebbe a ristabilire la fiducia con l’America anche se la rottura fra Netanyahu e Obama appare tanto sul piano personale che politico profonda. Permetterebbe anche al premier, rimanendo in carica con pieni poteri sino alla formazione del nuovo esecutivo, di non rinunciare - almeno ufficialmente - alla costruzione di case a Gerusalemme dando a Washington la scusa di accettare lo status quo con un «governo di transizione». In questa situazione complicata dalle suscettibilità personali delle parti, c’è poi il ruolo dimenticato dell’Europa che di interessi nella ripresa di negoziati fra israeliani e palestinesi ne ha molti. Non a caso, Silvio Berlusconi, unico leader occidentale al summit della Lega araba ma anche il capo di governo europeo più apprezzato a Gerusalemme e in cui gli israeliani hanno maggior fiducia, ha scelto la Sirte per lanciare «da amico» l’appello a Israele di interrompere le costruzioni a Gerusalemme est.

In mezzo a questo gran pasticcio, la ripetuta proposta fatta dal premier italiano di usare della «città della scienza» di Erici come luogo di possibile incontro fra israeliani e palestinesi, potrebbe essere un modo per aiutarli a scendere, senza troppo far loro perdere la faccia, dagli alberi su cui sono saliti.

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