Obama respinge il ricatto cinese sull’Iran

A Washington lo chiamano grande ricatto. Obama l’ha già respinto confermando di voler incontrare il Dalai Lama ad ogni costo. Il ricatto cinese però c’è e rischia di rivelarsi assai pesante. Per intuirlo basta dare un’occhiata ai due appuntamenti cruciali di questo mese. Il 18 febbraio il presidente Obama riceverà il Dalai Lama alla Casa Bianca. Una decina di giorni dopo il Consiglio di Sicurezza dell’Onu esaminerà le nuove sanzioni contro l’Iran. Il grande gioco è tutto concentrato in quei cruciali giorni di fine febbraio che rischiano di portare Washington e Pechino verso una nuova Guerra Fredda.
Pechino l’ha detto più volte, l’incontro con il Dalai Lama non s’ha da fare. E ieri i suoi portavoce hanno evocato un possibile «grave danno». La minaccia si nasconde in quelle due parole ed è strettamente legata al voto del Consiglio di Sicurezza. Grazie al suo cruciale diritto di veto Pechino può vanificare qualsiasi voto del Consiglio di Sicurezza e garantire immunità e protezione alla Repubblica Islamica. Se Obama stringerà la mano all’uomo simbolo dell’indipendenza del Tibet la Cina reagirà riducendo all’impotenza il mondo occidentale. E non lo farà neppure troppo a malincuore. In fondo quando annuncia un pugno in faccia all’Occidente la Guida Suprema Alì Khamenei sa di non dover fare affidamento sui propri muscoli, ma su quelli di un gigante cinese sempre più propenso a trasformarsi nel fratello maggiore di tutti gli Stati canaglia.
Quella propensione deriva dalla natura stessa della «potenza gialla». Una potenza costretta, per garantirsi il consenso interno senza concedere libertà e diritti civili, a promettere un inesauribile miglioramento economico. Per rispettare quel patto con i propri sudditi e alimentare la continua crescita economica il regime è costretto a reperire sempre nuove fonti energetiche garantendosene approvvigionamenti sicuri e illimitati. Gli unici ad assicurarli senza poter cambiare idea sono Paesi ai margini della legittimità internazionale come l’Iran, il Sudan, il Venezuela. Paesi pronti a garantire il ruolo di fornitori obbedienti e riconoscenti in cambio della protezione e delle armi del grande Fratello Cinese. Il caso Iran è esemplare. Pechino è oggi il primo partner economico della Repubblica Islamica grazie ad acquisti di petrolio e gas naturale per oltre 120 miliardi di dollari. In cambio Teheran può contare su forniture di macchinari, tecnologie e parti di ricambio. Lo scorso giugno la China Petroleum ha firmato un contratto da 5 miliardi di dollari per lo sviluppo degli immensi giacimenti di gas naturale della South Pars una società saldamente controllata dai pasdaran. Un mese dopo le aziende cinesi sono state invitate a partecipare a progetti per quasi 43 miliardi di dollari per la costruzione di 7 raffinerie di petrolio in Iran e di un oleodotto da 2.000 chilometri.
La moneta di scambio più preziosa di Teheran sono però le armi e le protezioni sul fronte del nucleare. Quelle protezioni hanno finora evitato il varo di sanzioni veramente risolutive. Da questo punto di vista l’unica vera contromisura psicologica nelle mani degli Usa è Israele. La mancata approvazione di nuove sanzioni rischia d’innescare un raid preventivo dello Stato ebraico deciso ad impedire con tutti i mezzi la costruzione della «bomba» iraniana. L’immediata chiusura dello stretto di Hormuz potrebbe, però, costringere la Cina a confrontarsi con prezzi del greggio quasi triplicati. La ricetta Obama per estorcere alla Cina un sì al Consiglio di Sicurezza nonostante l’affronto dell’invito al Dalai Lama si basa proprio su questa prospettiva. La prossima visita di Hillary Clinton in Arabia Saudita e Qatar serve a discutere la fornitura alla Cina, in cambio di un sì alle sanzioni, di quantitativi di greggio a prezzi bloccati in grado di sopperire alle forniture iraniane.
Se neppure quell’offerta basterà a evitare il niet alle sanzioni allora la nuova guerra fredda sarà ad un passo. Un passo già oggi auspicato da molti esponenti del Partito comunista e delle Forze armate cinesi decisi a punire la decisione americana di fornire a Taiwan armi per oltre 4 miliardi di dollari. «È venuto il tempo di punire gli Stati Uniti e di fargli male» ha dichiarato il generale della Marina Yang Yi.

E il colonnello Meng Xianging, esperto di strategia dell’esercito cinese, ha spiegato le tappe della prossima escalation. «Per i prossimi dieci anni innalzeremo il livello qualitativo dei nostri armamenti fino a quando non saremo pronti al confronto diretto con gli Stati Uniti».

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