Possiamo prendere sul serio la proposta di fare un «partito democratico del Nord», sia esso nella versione «federale» di Cofferati o in quella «federata» al partito nazionale, avanzata dal direttore della Repubblica? Non ci pare. Non perché siamo pregiudizialmente ostili alla ricerca di più congrui equilibri politici, ma per la consapevolezza storica che i partiti non nascono mai in provetta.
Le elucubrazioni sulla forma-partito, su cui i politici sconfitti e gli intellettuali guardoni si esercitano quando la loro parte è in difficoltà, finiscono sempre nel nulla se non affondano le radici nella realtà che precede la politica, ossia nella tradizione ideale e nei movimenti sociali che hanno il consenso popolare.
Sul Partito Democratico al Nord la Repubblica ha scritto parole di verità: «Il problema della sinistra è che è esterna prima ancora che estranea a questa trasformazione molecolare del lavoro e della produzione perché ferma ad una concezione fordista, evoluzionista, dove la piccola impresa è solo l'impresa da piccola e non un soggetto della modernità».
Ma da qui a pensare che con la bacchetta magica, o magari con qualche brillante intervista di filosofi alla Cacciari, i democratici possano ribaltare la loro estraneità alla realtà socio-economica settentrionale, corre la stessa distanza che c'è tra «il dire e il fare con in mezzo il mare».
Adesso tutti guardano con ammirazione alla Lega. Ma si tratta di una strana attenzione perché, da un lato, vengono condannate le bizzarrie folcloristiche di Bossi e amici, che non sono altro che un efficace linguaggio simbolico, e dall'altro si ammira la loro capacità di cogliere le istanze - prima di tutte la rivolta anticasta e la sicurezza - che vengono dalle popolazioni di quelle regioni.
La natura politica del Partito democratico, quale che sia il giudizio che se ne dà, deriva dalla sua storia. È il prodotto della fusione tra il post-Pci e il post-Dc di sinistra, concretatasi in un partito unitario organizzato secondo le vecchie appartenenze, caratterizzato in primo luogo dal taglio (lodevole) dei ponti con la sinistra massimalista. Questa è l'unica sua forza che, però, non ha nulla a che vedere con quello spirito territoriale di base che scorre nelle vene della Lega fin dalla sua nascita.
Ovunque in Europa i partiti regionali e federali hanno alle spalle una storia che li ha resi robusti: i cristiano-sociali nella Baviera tedesca, la sinistra nella Catalogna spagnola, i socialisti nella Vallonia belga. E, appunto, i leghisti nella Padania, così come in passato anche in Italia ebbero un quarto d'ora di successo gli indipendentisti siciliani e i sardisti. Tutti gli altri tentativi artificiali sono sempre finiti nel nulla.
La sconfitta del Pd non deriva dalla sua forma-partito, ma dal non avere saputo dare un'adeguata risposta politica ai bisogni degli italiani come invece è stato il merito della coalizione berlusconiana.
Massimo Teodori
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