L'introduzione di Francesco Bergomi a Paesaggio con rovine, di Piero Buscaroli, ora riproposto da Bietti (pagg. 376, euro 23) a trentun anni esatti dalla sua prima uscita per Camunia, è per la sua bellezza di quelle che costringono l'ipotetico recensore a ritagliarsi qualche sentiero tutto proprio, essendogli preclusa, se non in forma di parafrasi, la strada maestra della rilettura. Non solo Bergomi spiega il perché Buscaroli avesse allora messo insieme questo viaggio-resoconto-testamento sul declino, la caduta e poi la morte dell'Europa, ma si serve di quel 1989 in cui il libro venne pubblicato, poco prima della caduta del muro di Berlino, simbolo della fine di un'epoca, per verificarne le intuizioni in grado di resistere al tempo. Così, «lo sguardo retrospettivo sugli avvenimenti e sul senso della storia», se da un lato racconta «la caduta di un mondo ideale, la sconfitta esistenziale di un certo tipo d'uomo, la nostalgia e il culto di un paesaggio umano e artistico irrimediabilmente trascorso», dall'altro permette di travalicare gli avvenimenti: «La catastrofe si era già consumata prima della caduta del muro, era stata la causa della sua costruzione. Gli dèi se ne sono andati, gli archi e le colonne sono caduti al suolo. Questo senso delle rovine contiene il gusto neoclassico di un genere pittorico, cui rinvia il titolo della raccolta, il gusto del Settecento per un'architettura finita al tappeto, che nega la propria essenza di armonia costruttiva».
Anche l'analisi da Bergomi fatta della struttura del libro lascia poco spazio a ulteriori approfondimenti. C'è «la riflessione sul trattato di Versailles», come alfa e omega di un pensiero, «l'odioso-amato mondo inglese» con l'annessa «questione irlandese», l'ampia parentesi dedicata all'Est Europa, dove magiari, slavi e cechi sono stati caricati di un'eredità troppo pesante per le loro fragili spalle. Così, la Praga «magica» tanto ammirata e tanto citata, racconta in realtà la spartizione fra i quartieri storici, concepiti dagli architetti italiani e tedeschi, e gli agglomerati ottocenteschi propri dell'espressione slava, con la città antica usata come vetrina per la commedia turistica, ma odiata e scansata perché non in linea con lo spirito arido, razionale, comunitario degli Slavi, bensì con la Controriforma europea.
Se dunque, grazie a questa introduzione, il lettore ha a disposizione tutte le mappe per inoltrarsi nel paesaggio con rovine buscaroliano, a noi non resta che indicargli estemporanee diramazioni, del resto rese possibili dalla straordinaria ricchezza del libro. Per motivi di spazio, ne indicheremo soltanto una, che prende spunto da un capitolo significativamente intitolato «Camera d'albergo». In Germania, ad Hannover, all'inizio degli anni Sessanta, Buscaroli si ritrova «nella più incredibile camera che m'abbia alloggiato» e per due pagine ne fa l'affascinante descrizione: quadri del Settecento, paesaggi dell'Ottocento, tende degli anni Venti, mobili targati anni Trenta, lampadari Secessione... «Il guscio - spiega - non mi è mai indifferente e, come l'antipatica Madame Merle di Portrait of a Lady di Henry James, trovo difficile giudicare una persona senza la collaborazione dei suoi abiti, del mobilio, della sua casa». Le camere dove ha dormito, osserva ancora, «mi stanno davanti come volti di persone, imprimono nella memoria il sigillo di un luogo, di una città». Nel ricordare una descrizione d'interni del dannunziano Trionfo della Morte, ne constata l'inattualità a petto dell'anonimia del romanzo moderno: «Adulteri svelti come incontri di bordello si consumano in rifugi di montagna. La Leda dell'amore coniugale di Moravia si prende nel letto un ufficiale degli Alpini e non gli domanda nemmeno come si chiami. Figuriamoci se bada all'arredo della stanza».
Ma torniamo alla camera d'albergo di Hannover. Al mattino, con la prima colazione, dove tutto il servizio da tavola ha le incisioni, gli stemmi e le cifre di un grande albergo di Danzica, Buscaroli ha la rivelazione del perché di quell'accozzaglia fortuita di oggetti che avevano vegliato il suo sonno. Sono «le immagini di una rovina e di un destino. C'erano le fughe su treni che non sarebbero giunti mai, schiantati o mitragliati chissà dove, verso Occidente, dalla Curlandia e dal Baltico, dalla Pomerania...
La risacca dello spaventoso naufragio aveva spinto quell'ammasso di cose a comporre il fortunoso inventario di mode e stili tra Biedermeier e Novecento, specchio di una intera borghesia» e ora occasione per una «meditazione iconologica» sul destino della Germania... Serve altro?
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