Un paio di sospetti sull’«Apocalypto» vietato

Ho seguito su la Repubblica la polemica che ha condotto il Tar del Lazio a vietare ai minori di 14 anni la visione del film Apocalypto di Mel Gibson. M'interessava il fatto che un quotidiano che ha sempre espresso la parte (perlomeno sedicente) innovatice della società italiana, e che ha sempre combattuto (perlomeno a parole) l’ipocrisia che sta dietro l’etica dei divieti, si sia battuto adesso con fervore affinché la visione di un film con scene di violenza fosse limitata agli «aventi età».
Può darsi che una generazione che ha sperimentato sulla propria pelle l’inanità del «tutto è permesso» si adoperi, ora, a evitare che i figli commettano lo stesso errore.
Questo sarebbe encomiabile se non fosse per due piccole osservazioni, che una naturale cattiveria mi fa affiorare alla mente.
La prima è che appare un po’ ipocrita questo divieto quando i cinema e Internet sono pieni zeppi di una violenza che i bambini bevono a grandi sorsate fin dalla più tenera età. In un tempo in cui Babbo Natale appare come l’ultima sponda per la salvaguardia dell’infanzia innocente (e ne fanno le spese le maestre che osano metterne in dubbio l'esistenza), nessuno si meraviglia della violenza diffusa che passa, istante dopo istante, nei mezzi di comunicazione, del disprezzo dell’uomo che domina varietà e reality show, senza decoder né password.
Prendete cento bambini di dieci anni, di quelli che credono a Babbo Natale, e chiedete loro se sanno cos’è uno stupro. Ne sentirete delle belle.
Il primo sospetto che nasce è allora questo: che il problema sia non tanto la violenza quanto lui, Mel Gibson, un personaggio che fa cassetta, che sa farsi pubblicità, ma che non gode delle simpatie dell’establishment, qui come in America. Forse perché cattolico, e a quel modo lì...
La seconda osservazione rinvia al mio amato filosofo Michel Foucault, il quale ricordava che, in un testo, il soggetto parlante, il «chi parla», è parte essenziale del testo stesso.


Il secondo sospetto che nasce è allora questo: che nella società italiana - che è sempre stata dominata dalle élites e la cui radice popolare è stata devastata da una politica orribile che ancora perdura - non contino tanto il «si vieti» e il «si permetta» quanto «chi» dice queste cose. Come sempre.

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