PALI E DISPARI «Oltre a Zelig c’è un altro modo di far ridere»

Marco Silvestri e Angelo Pisani parlano del loro ultimo progetto, il collettivo artistico Favelas: «Qualcosa di simile alla Factory di Warhol ma in chiave comica. Perché non c’è solo il cabaret»

Igor Principe

Se il giovedì sera accendi la televisione, te li ritrovi tra un Bisio e un’Incontrada a fare i Pali e Dispari in quel di Zelig Circus. Se il mercoledì sera vai in via Tertulliano allo spazio Pim, li vedi mettere in scena cose che con «bella cumpa!» e gli altri loro tormentoni non hanno niente da spartire. Sul quel palco, infatti, i Pali e Dispari tornano a essere Marco Silvestri - quello più alto, con la voce di un baritono - e Angelo Pisani - quello più basso, dai movimenti più scattanti. Insieme da nove anni, reduci dai laboratori teatrali del Cts Scaldasole, il mercoledì diventano gli animatori di “Favelas”. Cosa sia, lo spiega Angelo: «Formalmente è un collettivo artistico. Ma noi vorremmo diventasse qualcosa di simile alla Factory di Andy Warhol in chiave comica. Warhol, come è noto, riuniva intorno a sé artisti di ogni tipo: musicisti, pittori, scultori, attori. E li guidava facendone nascere qualcosa di inconsueto. Da noi accade qualcosa di simile, solo che viene convertito in una chiave comica».
Marco si affida agli esempi. «Sei un musicista e vieni da me con la tua canzone. Magari d’amore, bella lacrimosa. Io ti ascolto, poi ti chiedo di dialogare con me sulle parole del brano. Poi arriva Angelo, e mentre io e te ci raccontiamo la canzone lui la mima, o si inventa qualcos’altro sempre sullo stesso tema». Si improvvisa, insomma, cercando una strada alternativa per un’arte, quella della comicità, che pare ingabbiata nelle espressioni di maniera: il cabaret, la commedia, il monologo. «Attenzione, però: con “Favelas” noi non rinneghiamo niente di quello che siamo come Pali e Dispari - prosegue Angelo -. Solo, a quell’esperienza ne aggiungiamo altre che ci hanno formato: la musica per Marco, il teatro per me, i nostri momenti di lavoro con Danio Manfredini, Emma Dante, Davide Enia. Da qui partiamo per capire cosa può accadere se sali sul palco e racconti una “non storia”».
La cosa si complica, e Marco interviene di nuovo a cercare di dipanare la matassa. «Non c’è un senso immediato in quel che vedi a “Favelas” - dice - ma una continua ricerca di emozioni e stimoli. Si procede per immagini, secondo la lezione che ci ha dato Emma Dante. Lei fa teatro in siciliano, ma ti fa vedere dei particolari che ti colpiscono anche se non capisci quello che dice. Nelle nostre immagini, può trovare spazio uno che mentre ti racconta di una malattia, commuovendoti, lo fa in modo da farti schiantare dal ridere. Cerchiamo le emozioni di pancia, non di testa».
Il primo anno di “Favelas” è stato un lungo laboratorio, al teatro Guanella. L’anno scorso, il secondo, il debutto al Pim, che giocoforza diventa anche un luogo in cui accogliere nuove leve di artisti. Che tipi cercate? «Non ci interessa il curriculum, basta abbiano qualcosa da dire - spiega Angelo -. Trovarli non è facile. Il modello televisivo ha imposto nuovi schemi: prima l’obiettivo era arrivare, che so, al Derby. Ti preparavi, studiavi, ti creavi un repertorio. Poi da lì decollavi. Ora si guarda a quei quattro minuti di passaggio in tv, e ti prepari solo su quelli. Ovvio che ti venga a mancare qualcosa».
E non manca qualcosa anche a Milano, per un progetto come “Favelas”? Warhol, dopotutto, ha messo in piedi la Factory in un posto come New York. «“Favelas” è un nome che può indicare la fame - conclude Marco -.

È la fame di novità che ci spinge a questo. Ma vediamo che la stessa fame c’è anche nel pubblico. Non manca chi rimane deluso, perché si aspetta i Pali e Dispari. Ma sono di più quelli che restano, perché hanno scoperto qualcosa di nuovo e inaspettato».

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