Pannella, 80 anni da rompiscatole. "Ma anche il Papa volle parlarmi..."

Pannella, 80 anni da rompiscatole. "Ma anche il Papa volle parlarmi..."

Je ne regrette rien. La voce è di Edith Piaf, l’anima è la sua. Marco Pannella a un certo punto lo dice: io non rinnego nulla. È la sua forza, la sua storia, la sua biografia. Non c’è perdono. Non c’è peccato. Non c’è redenzione. Quest’uomo di 80 anni puoi prenderlo solo così, come un gigante imperfetto, scomodo, qualche volta irritante, un perdente che non è mai stato sconfitto, un maestro che rinnega i suoi discepoli. Questo libro pubblicato da Bompiani sembra un’autobiografia. Il titolo è Le nostre storie sono i nostri orti (ma anche i nostri ghetti). Ed è senza dubbio pannelliano. Non lasciatevi ingannare. Marco si racconta, in una lunga intervista, a Stefano Rolando, ma non mette mai la parola fine. Non c’è nostalgia. Non è il racconto di un grande vecchio. Non è il diario di un ottantenne. È la fotografia di un uomo sempre uguale a se stesso. Poi ci sono anche i ricordi e le idee e le passioni e quel restare sempre un passo fuori dalla storia. Pannella che non è di destra né di sinistra. Pannella liberale, liberista e libertario, pasoliniano, Sciascia e Cicciolina, Tortora e Toni Negri, craxiano e degasperiano, con Wojtyla e contro la Chiesa, berlusconiano e piddino, qualche volta perfino andreottiano. Pannella che è sempre e solo Pannella. Fin dall’inizio. Ti ricordi il primo sciopero della fame? «Lo ricordo bene. Inizio Anni sessanta. Lavoravo a Parigi per Il Giorno. E avevo ottimi rapporti con la resistenza algerina. C’era un vecchio anarchico francese, Louis Lecoin, uno che contro la tradizione anarchica aveva chiesto addirittura al Papa di intervenire per salvare Sacco e Vanzetti, convertito alla non violenza, con un certo prestigio nel mondo intellettuale. E a lui mi aggregai. Dopo quattro-cinque giorni smise lui e smisi io». Il motivo? L’appoggio alla resistenza algerina. Tutto comincia e finisce con i diritti umani.
Pannella è una vecchia zitella che ha avuto tanti amanti. Li ricorda tutti e non rinnega nessuno. Craxi gli diceva: «Non posso starti sempre a sentire, questi ci linciano». Marco lo ricorda così: «Quando salvammo D’Urso, prigioniero delle Br, finì a champagne con lui. Sorrideva. E siccome non aveva ancora aggiustato i denti aveva davanti una fessura, di quelle in cui ci puoi fare i tuffi. Non era bello, ma quel sorriso aveva un suo fascino». Di Andreotti dice: «Devo dargli atto che con il passare degli anni il suo cinismo cattolico romano si è trasformato in alto cinismo greco. Ha saputo crescere invecchiando».
Quelli del Pci non lo hanno mai sopportato. I radicali erano i borghesi, quelli con troppi vizi, una compagnia girovaga di buffoni e viandanti. Li chiamavano «froci e drogati». «Hanno sempre cercato di esorcizzarmi. Ci hanno vissuto un po’ come i comunisti storici avevano vissuto i trotzkisti. E mi dispiace che questo atteggiamento lo sento ancora nel Pd». È stato sempre così. La sinistra ha sempre cercato di tenere Pannella fuori dalla porta. E anche adesso lo sopportano per amore della Bonino. È difficile collocarlo. La politica è meraviglia: «Ho difeso l’Msi dal fascismo degli antifascisti». Uno dei suoi teoremi: «Il dialogo è tra persone che non condividono tutto. La sintesi è una profonda trattativa». Sembra che Papa Wojtyla ascoltasse le sue interviste: «Lo ha raccontato lui stesso. Quando arrivò a Roma, appena eletto cardinale, gli parlarono di questo politico strano che faceva scioperi della fame. Volle vedermi. Di quel dialogo ci rimase una visione non distante sull’idea di religiosità».


Pannella non sarà mai un «padre della patria». Niente monumenti. «Mi offenderebbero un po’». Un giorno gli chiesero: che fai se gli italiani ti eleggono presidente? «Mi dimetto. Significa che l’Italia non ha più bisogno di me».

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