PARENTI STRETTI

«Mi avete insegnato a parlare come voi: e quel che ho guadagnato è questo: ora so maledire». Non sappiamo che cosa pensi il professor Noam Chomsky, della battuta del mostro Calibano nella Tempesta di Shakespeare. Sappiamo però che ne pensa un altro esperto in materia: Bruno Littlemore: tutto il bene possibile, visto che la pone, quasi a mo’ di firma, al termine dell’autobiografia dettata a Gwendolyn Gupta tra il 9 settembre 2007 e l’8 agosto 2008. E il fatto che Bruno Littlemore sia ben più che il famigerato «anello di congiunzione» fra l’uomo e la scimmia, che sia cioè il primo, autentico, scandaloso e per certi versi inimitabile uomo-scimmia (anzi, scimmia-uomo), rende il suo giudizio più autorevole di quello dell’autore di Il linguaggio e la mente.
Bruno, nato nella Casa dei primati dello zoo di Lincoln Park, a Chicago, il 20 agosto 1983 è (anzi, era) un Pan troglodytes, uno scimpanzé. Suo padre, erotomane e accanito fumatore, e sua madre, incline alla depressione, sono invece africani, come prevedono i dettami della loro specie. Anche a Bruno il Destino ha prospettato una squallida esistenza da trascorrere in gabbia, spulciando i compagni di sventura, facendo le boccacce ai cuccioli di umani, annoiandosi e, nelle giornate no, meditando il suicidio. Ma per i Pan troglodytes, proprio come per gli Homo sapiens sapiens, il percorso del Destino ogni tanto ha degli scarti improvvisi, e li porta a imboccare strade impreviste e imprevedibili. Così accade che Bruno venga «deportato» al Centro di biologia Erman dell’Università di Chicago per esser sottoposto ad alcuni test che ne saggino l’intelligenza. Accade che a occuparsi di lui sia soprattutto Lydia, bella e dolce studiosa ventisettenne. Accade che questo incarico riaccenda nella donna l’istinto materno che cova sotto la cenere dopo l’aborto di qualche anno prima. Accade che anche in Bruno, ormai giunto alla maturità sessuale, quella pelle liscia e bianca, quei capelli lunghi e biondi, quegli ancestrali odori captati abbracciando la maestra-amica, qualcosa si accenda. Qualcosa di inaudito, scandaloso, mostruoso: il fuoco della passione. E quando Lydia se lo porta addirittura a casa, nell’appartamento 1A al 5120 di South Ellis Avenue, quell’esemplare così interessante e affettuoso, a noi lettori che mica per niente ci chiamiamo sapiens sapiens si accende una lampadina nel cervello: «stai a vedere che questi qui finiscono a letto insieme e ci tocca rileggere La donna e la scimmia di Peter Høeg».
Invece no. Se nel libro dell’autore danese la donna resta donna e la scimmia resta scimmia, in L’evoluzione di Bruno Littlemore (Ponte alle Grazie, pagg. 546, euro 21, traduzione di Lorenza Di Lella e Sonia Scognamiglio) Benjamin Hale va oltre, afferrando il testimone passatogli da nonno Darwin e correndo romanzescamente spedito verso quell’ibridazione di cui troviamo timide tracce, a esempio, in Il pianeta delle scimmie di Pierre Boulle (datato 1963, da cui Franklin James Schaffner trasse cinque anni dopo il film omonimo) o nel racconto Una relazione per un’Accademia di Kafka, e di cui il celebre «Oliver lo scimpanzuomo» sarebbe la dimostrazione vivente. Per non parlare della storia narrata da Pier Damiani nell’XI secolo, quella di un conte che sposò una scimmia e venne da lei ucciso per gelosia, o degli esperimenti eugenetici del folle dottor Josef Mengele...
Hale va oltre tutto ciò perché quello che potrebbe essere il punto d’arrivo della sua storia, dopo la parentesi esotica nel ranch del miliardario animalista Dudley Lawrence (e sorvoliamo sul destino del figlio della colpa per non svelare un punto nodale della narrazione), diventa il giro di boa che segna la metà esatta del percorso. Appreso a proprie spese che «la torre di Babele non è verticale ma orizzontale», Bruno, il quale nel frattempo si è fatto il dono della parola, di fronte al dramma della compagna gravemente malata dà fuori di matto, tornando a essere bestia selvatica nei comportamenti, ma senza azzerare la propria mente ormai del tutto umana. Quindi, ecco la fuga da una sorta di manicomio per primati, l’autoesilio newyorkese, il sodalizio con Leon Smoler, personaggio falstaffiano a tutto tondo con cui il Nostro mette in piedi la compagnia Shakespeare Underground... Insomma, la classica seconda vita (per la verità la terza, considerando anche la prima da semplice scimpanzé). Infine, ecco il ritorno nell’uggiosa Chicago, di nuovo bussando alla porta dell’appartamento 1A del 5120 di South Ellis Avenue. Per scoprire però che tutto è finito, che il sogno di una serenità borghese è irrimediabilmente infranto.
Ora la vendetta sull’uomo, sul suo delirio di onnipotenza creatrice è la nuova missione di Bruno. La porterà a termine con forza belluina e, dopo un fugace ricongiungimento con le proprie origini, conoscerà il sollievo della confessione.

«È la vanità che ci rende umani», aveva dettato a Gwen molte pagine prima. È l’innocenza che ci fa tornare animali, potrebbe affermare chiudendo il cerchio della sua straordinaria avventura. E, come Calibano, ringraziando gli Homo sapiens sapiens che gli hanno insegnato a odiarli.

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