Parmalat, Bondi accusa le banche: «Sapevano tutto del disastro»

Il risanatore del gruppo di Collecchio depone al processo sul crac: «L’azienda era tenuta artificialmente in vita da un sistema che conosceva ogni dettaglio»

Stefano Zurlo

da Milano

Le banche sapevano del disastro. L’amministratore delegato della Nuova Parmalat Enrico Bondi non fa sconti a nessuno. Tantomeno agli istituti di credito che, almeno per ora, non compaiono sul banco degli imputati del processo milanese. Bondi parla per cinque ore e punta il dito contro tutti: i dirigenti dell’azienda che andarono allegramente incontro al baratro, il consiglio d’amministrazione, i sindaci, i revisori. Falsi erano i conti, false le comunicazioni al mercato. L’azienda di Collecchio galleggiava su un mare di bugie. Visibili, in buona sostanza, ad occhio nudo. E pure gli istituti di credito partecipavano a questo circuito della menzogna.
Bondi non usa giri di parole: «È fuori di dubbio che le banche fossero a conoscenza della reale situazione di Parmalat. Bastavano semplici confronti fra il livello del debito segnalato dalla centrale dei rischi della Banca d’Italia e il debito a bilancio. C’era una differenza di 700 milioni nel ’97, poi salita a un miliardo nel 2002». Se poi si esaminano le singole posizioni, il primo nome che spunta è quello di Bank of America: «Dobbiamo pensare che Bank of America fosse estremamente integrata all’interno del gruppo e a conoscenza dei dettagli».
Bondi, pacato ma impietoso, descrive quel mondo marcio dalle fondamenta: «Stiamo parlando di un gruppo che è stato tenuto artificialmente in piedi da un sistema che doveva conoscerne la situazione». Calisto Tanzi, il principale protagonista del default da 14,4 miliardi di euro, ascolta silenzioso a pochi metri di distanza. «Bondi è uno bravo», dice Tanzi al primo break.
L’altro sta infilzando come uno spiedo dieci e passa anni di finanza creativa: «Il gruppo si è dimostrato un vero e proprio divoratore di cassa cresciuto per linee esterne non redditizie, oberato da distrazioni imponenti, perchè invischiato in operazioni finanziarie di grandi dimensioni e sempre più costose per cercare di nascondere lo stato di insolvenza». Gli avvocati di Tanzi, Gianpiero Biancolella e Fabio Belloni, fanno buon viso a cattiva sorte: «È pacifico l’apprezzamento per il lavoro di Bondi». E poi quell’attacco al mondo del credito, quel ridistribuire le responsabilità anche lontano da Collecchio, è un aiuto per il cavalier Tanzi. Che ai cronisti risponde così: «Ho molte cose da rimproverarmi». Quali?
Non c’è tempo per la risposta. Tanzi non sta bene e abbandona l’aula. Intanto Bondi sta descrivendo i giorni terribili del dicembre 2003, quando fu chiamato a Collecchio, «dopo una cena in cui Tanzi mi aveva chiesto una consulenza per la ristrutturazione del gruppo»: «Subito dopo la nomina, fui convocato in Consob d’urgenza e solo allora appresi dal presidente Lamberto Cardia che mancavano 3,9 miliardi di euro». Quelli che, sulla carta, dovevano essere presso Bank of America. «Inesistenti come le attività della controllata Bonlat». Bondi capì rapidamente che il gruppo era in una situazione spaventosa. Ma le notizie sul default gli arrivarono tutte da fuori. Dall’interno non una parola. Solo silenzio. Taceva il management. Taceva il consiglio sindacale. Chiudevano tutti e due gli occhi i revisori di Grant Thornton e Deloitte: «I revisori e i sindaci non erano indipendenti: Parmalat si stampava i conti correnti». E le banche «di fatto hanno concorso alla falsa rappresentazione economica e finanziaria dei bilanci del gruppo».
Una multinazionale allo sbando che fra il 31 dicembre ’98 e il 31 dicembre 2003 divorò 14,2 miliardi di risorse finanziarie, di cui 13,2 miliardi sotto forma di finanziamenti forniti o ottenuti per il tramite del sistema bancario. Insomma, il crac fu occultato per anni. La nave imbarcava acqua, ma restava a galla utilizzando in modo massiccio i bond: «Nel 2003 quando il ricorso ai bond non è stato più possibile, il gruppo è collassato».

Ma fino al 2003 Parmalat «era disposta a pagare spread più elevati, anche se si cercava di tenere sotto una cortina di fumo l’effettivo costo». La conclusione è tranchant: «Il rischio debitorio trasferito su altri investitori dimostra che quello che era visibile non si volle vedere». Fino al naufragio.

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