A parole sono tutti liberali ma nessuno sa cosa vuole dire

Sopravvivono ancora i residui e i metodi delle vecchie ideologie. E se si discute di regole e giustizia, spuntano subito i giacobini

A parole sono tutti liberali 
ma nessuno sa cosa vuole dire

Posso confessarvi una cosa? Sono stanco di sentir ripetere da anni, a destra e manca, elogi pelosi alla cultura liberale. Il centro-destra parla di cultura liberale, l’opposizione invoca l’avvento di una destra liberale, molta sinistra e i radicali si definiscono liberali, i giornali non ne parliamo; sono tutti sulla linea liberale. Sembra che l’unica cultura ammessa a parlare, l’unica cultura davvero moderna, positiva e moderata, sia quella liberale. Poi vedi la realtà e ti accorgi che di liberale c’è poco e nulla.

Parli di giustizia e il lessico liberale si trasforma in giacobino, il rispetto delle regole liberali degenera da una parte in anarchia selvaggia e dall’altra la Legge viene usata come una forca più che una norma da rispettare. Parli di Unità d’Italia e i liberali spariscono insieme a Cavour per far posto a Garibaldi e alle camicie rosse. Parli di cultura civile a scuola e l’aggettivo democratico si mangia quello liberale, ornandosi dell’appellativo antifascista, anche perché consente di includere nella storia condivisa in uso nelle scuole anche il comunismo. Parli di democrazia liberale e senti descrivere l’avversario con toni da nemico come un tiranno che soffoca la libertà e il diritto o come un golpista in toga che vuole instaurare uno stato di polizia.

Se fai un’analisi verace e non militante del quadro politico trovi poco o nulla di realmente liberale: trovi residui di ideologie venute dal secolo totalitario, trovi eredità comuniste e socialiste, cattoliche e fasciste, rinnegate nei principi ma non nei metodi; anzi trovi che la scoperta della democrazia liberale si accompagna spesso al riemergere di un’indole autoritaria e oligarchica persino peggiore rispetto ai partiti democratici di massa del Novecento. E anche le nuove culture, i nuovi partiti, mi sembra che abbiano francamente poco di liberale: dall’Italia dei Valori alla stessa Lega non mi pare che il comun denominatore sia la cultura liberale. Piuttosto il populismo, giudiziario nel primo caso, localista nel secondo.

Ma se dovessi spiegare sul piano della cultura politica anche Berlusconi avrei francamente difficoltà a definirlo liberale; parlerei al più di populismo liberale. Aggiungo per onestà di analisi che personalmente non giudico l’aggettivo liberale automaticamente positivo e non giudico l’aggettivo populista automaticamente negativo. Populista è chi si appella direttamente ai cittadini, li mobilita, alza i toni dello scontro e parla il linguaggio della gente; e nel caso di Berlusconi assegna importanza centrale alla sovranità popolare e al consenso libero e diretto. Lo dico anche al ministro Bondi che ieri sul Giornale ha evocato la cultura liberale in una replica a Galli della Loggia.

Se con grande sforzo di immaginazione, dovessimo cercare un santo protettore, un teorico e un ispiratore della nostra democrazia di questi anni, penso che dovremmo evocare il grande e terribile Carl Schmitt. Uno Schmitt volgarizzato e modernizzato, adattato al caso italiano e naturalmente ad uso di democrazia, non certo di dittatura.

Quali sono i punti salienti che ne derivano? Direi soprattutto quattro: 1) la forte contrapposizione tra amico e nemico, anzi la convinzione che la politica nasca a partire dall’indicazione del nemico; 2) la priorità della politica sul diritto, sulla norma giuridica, nel nome della sovranità popolare e del consenso al leader, in un caso, o nel nome dell’ideologia partigiana e della setta politico-giudiziaria che la rappresenta nell’altro; 3) l’importanza del Decisore, di colui che guida e che decide rispetto alla priorità delle regole o del parlamento, nel quadro di leadership personalizzate; 4) la cultura dell’emergenza, che implica l’idea del Sovrano che decide nello stato di eccezione o mutatis mutandis del Partigiano che usa ogni mezzo per far fuori il nemico, dopo averlo criminalizzato, per fronteggiare in ambo i casi l’eccezionalità della situazione.

In quei quattro punti c’è il riassunto culturale della nostra fase politica, da destra a sinistra, che Berlusconi esprime al massimo livello, ma che appartiene anche ai suoi avversari, anzi nemici. Sia Berlusconi che Di Pietro e Bossi, parlano del resto di chiamata alle armi, evocano il Bene e il Male. E coloro che non lo fanno, come Bersani e Fini, sono inabilitati a farlo perché provengono da tradizioni fondate, anche tragicamente, sulla chiamata alle armi. E il poco che si contrappone a questa drammatizzazione guerresca della politica non nasce in seno alla cultura liberale ma allo spirito cristiano, all’indulgenza cattolica.

Ho volato troppo alto? Avete ragione, ho scomodato le solenni categorie della politica, la teoria di un grande giurista e politologo che non fu mai liberale. Qui parliamo di schmittiani inconsapevoli e di derivazioni volgari dalla sua dottrina. Ma è lui, e non il pensiero liberale, a spiegare la situazione in cui siamo. Non solo politica, ma anche mediatica, anche civile e culturale. Siamo alla politica intesa davvero come la continuazione della guerra con altri mezzi, compresi i mezzi d'informazione. O se volete, alla continuazione della guerra con altri mezzucci, che mirano comunque all'eliminazione del nemico più che alla libera competizione con lui.

Come vedete, non ho espresso giudizi, non ho nemmeno detto se è un bene o un male, se è vero o falso; ho solo tentato di fotografare la realtà alle sue radici. E mi sono sforzato di capire che cultura soffia sotto gli spiriti animali del nostro tempo. Ma ho trovato poco o nulla di liberale.

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